QUALCHE IDEA INTORNO ALLA LETTERATURA DI VIAGGIO. DALL’ESPLORAZIONE AL TURISMO DI MASSA…TRA VERITA’ E MENZOGNA

Dino Buzzati e il Bestiario…In molti casi quando sentono questa parola la collegano immediatamente allo scrittore, pittore e giornalista de Il Corriere della Sera. Ma non è questo caso. Può ancora sopravvivere il travel writing nell’epoca della globalizzazione? E qual è il rapporto fra verità e menzogna che si nasconde in molta della “narrativa” che a esso si rifà? Ho scritto “narrativa”, fra virgolette, non a caso: perché i primi a considerarsi scrittori tout court, e non scrittori di viaggio, sono spesso i diretti interessati, e però il termine romanzo o racconto potrebbe a fatica essere applicato a molta della loro produzione. E va da sé che se di un reportage si mette in discussone la veridicità, per quanto si possa apprezzare la fantasia che lo percorre, rimane al lettore la spiacevole sensazione di essere stato preso in giro o ingannato.
Sulla difficoltà di scrivere di viaggio in un’epoca in cui viaggiano tutti e non c’è più niente da scoprire, l’opinione di William Darlymple si presta ad alcune considerazioni. A suo parere, finita l’epoca gloriosa del viaggio come esplorazione-rivelazione, siamo ormai da tempo entrati in quella del viaggio come riflessione: si interroghiamo sui cambiamenti, li analizziamo, cerchiamo un occhio vergine, o semplicemente diverso, con il quale raccontare quello che tutti guardano, ma non vedono, C’è insomma uno spostamento dall’oggetto al soggetto: non è più la tale città a rivelarsi attraverso la penna di chi la racconta, ma è la psicologia di quest’ultimo a usare strade, piazze, monumenti, odori come strumento di un proprio approfondimento e di una maggiore comprensione delle cose. Darlymple ha scritto libri bellissimi sull’India, in particolare su New Delhi, ma il loro fascino deriva proprio dal taglio impressionistico con cui la capitale indiana viene raccontata, un taglio assolutamente personale dove si mischiano memorie private, documenti pubblici, incontri estemporanei, riflessioni intime. Così facendo New Delhi acquista per chi legge una dimensione nuova, come se prima di allora nessuno ne avesse parlato…
La modernità, dunque, secondo Darlymple, è una sfida: obbliga a un surplus di conoscenza da un lato, a una capacità di sintesi e di scrematura dall’altro, spinge chi scrive ad acuire i propri sensi e il proprio stile e sotto questo aspetto spinge verso una costruzione letteraria che ha la stessa dignità e la stessa difficoltà che si può’ avere nell’edificazione di un romanzo.
Le idee dell’inglese Darlymple ci riportano all’altro tema da cui siamo partiti e rispetto al quale l’italiano Stefano Malatesta, presidente fra l’altro del Festival della letteratura di viaggio, ha un’idea ben precisa, quella che, fin dalle origini, i libri di viaggio non siano stati altro che “livres de merveilles”, in quanto il loro fine era stupire i lettori e “la linea di confine fra la realtà e la fantasia era incerta”. Venendo più vicini a noi nel tempo, Malatesta nota che negli anni d’oro delle letteratura di viaggio, quelli novecenteschi fra le due guerre, i vari Durrell, Greene, Isherwood, Waugh, Maugham, “non si sentivano scrittori di viaggio, un termine che detestavano, ma semplicemente scrittori che a volte si applicavano su memorie di attualità”. Erano soprattutto “dei professionisti dediti alla composizione di testi che dovevano avere tutte quelle qualità letterarie che ci si aspetterebbe da loro. Era la letteratura, non l’accuratezza geografica o la descrizione del colore locale l’evidente scopo dei loro spostamenti”.
Malatesta ha ragione, ma insieme ha torto, La maggior parte dei nomi da lui citati rimanda a romanzieri che magari utilizzarono il viaggio come “una forma di fuga”, nonché un modo per fare saggistica in maniera diversa, ma che debbono la loro fama e la loro grandezza a quando furono romanzieri tout court. Waugh è grande per Ritorno a Brideshead e per la Trilogia dell’ onore, Greene per Il fattore umano e Il potere e la gloria, Maugham per La luna e sei soldi e Pioggia, Durrell per Il quartetto d’Alessandria, eccetera, e naturalmente non basta un’ambientazione esotica, il Messico piuttosto che la Malesia, per far rientrare la letteratura di viaggio dalla porta principale della narrativa…
Quanto ai “livres de merveilles”, è come mischiare i mappamondi quattrocenteschi, immaginifici e immaginari di Fra’ Mauro con la cartografia che verrà dopo, le avventure del prete Gianni o di Munchausen con il viaggio alla mecca di Richard Burton o l’Arabia felix di Doughty…
In realtà, due solo sono gli autentici scrittori di viaggio citati anche da Malatesta: Norman Douglas e Robert Byron. Ai lettori italiani il primo è noto per libri quali Old Calabria e Terra delle sirene e Malatesta deve ammettere che i suoi testi “sono sempre stati molto accurati, nella topografia dei luoghi, nei dialoghi e tutto il resto”. Quanto al secondo, La via per l’Oxiana è considerato il libro cardine del travel writing novecentesco. A scriverlo, una volta rientrato in patria, Byron ci mise due anni, ma, stando ai pettegolezzi degli amici, aggiunge Malatesta, “le brillanti conversazioni con i nativi erano state inventate per la semplice ragione che Byron non parlava nessuna lingua orientale”. Degli amici, si sa, bisogna sempre diffidare: Byron fece quel viaggio con tutte le comodità e gli aiuti di cui un inglese poteva godere in terre dove il potere della corona britannica era reale, aveva un interprete, c’era chi traduceva per lui, eccetera, eccetera…Ma naturalmente, non è questo il punto: Il punto è, come diceva “l’accurato” Douglas, che “chi viaggiava buttava via tanto materiale, scrivendo un libro, che se una volta inventava qualcosa era ampiamente giustificato”.
E’ per certi versi il verosimile che è migliore del vero. Diceva la moglie di Bruce Chatwin che “nel suo mondo tutti gli anatroccoli sono cigni” e questa definizione, nella sua semplicità, è la più appropriata nel rendere il complesso rapporto con la verità, nel caso di Chatwin irrisolvibile, tanto per lui quest’ultima si confondeva con la propria visione del mondo, nella quale, correlazioni, intuizioni e personaggi rispondevano a un preciso canone estetico. Paul Theroux, viaggiatore e romanziere, una volta lo rimproverò per la mancanza di dettagli e precisione di cui erano lastricati i suoi testi: “Se scrivi un libro di viaggi devi dire la verità” lo riprese. “Non credo nella verità” fu la risposta. In realtà, parlavano due lingue diverse. Theroux, che ha sempre alternato reportage e narrativa, vedeva i due campi separati. Chatwin li ha sempre mischiati, ritenendo la propria verità artistica superiore o, in ogni caso, più interessante di quella reale.
Chiunque voglia dare ai propri reportage una dignità che li sollevi dalla quotidianità e dall’invecchiamento precoce dell’articolo di giornale, tutto questo lo sa benissimo. Spesso la realtà è sterile, o noiosa, le conversazioni avute insignificanti, l’impatto con l’ambiente deludente…Ci si può arrendere e darne piattamente conto, oppure resistere e insistere, sottolineare e/o rinforzare quell’unico elemento interessante, appoggiarsi ad altre fonti, affidarsi alla memoria, variare sul tema, inserire elementi di fantasia a sostegno di una realtà comunque presente…E’ un percorso complesso, a volte tortuoso, che richiede pazienza, intelligenza, sensibilità, sacrificio. Non significa scrivere il falso, ma, più sottilmente, creare il proprio vero. Nell’Itinerario da Parigi a Gerusalemme, il libro di viaggio con cui Chateaubriand già nel 1811rivoluzionava il genere e lo apriva alla modernità, l’autore arriva sulle rovine di Sparta. Non c’è più niente, se non solitudine, abbandono, pietre sparse. Nulla ricorda la grandezza del luogo, niente sembra in grado di far rivivere la memoria del passato. Disperato, Chateaubriand si guarda intorno e poi, montando su una roccia, lancia un grido: “Leonida!!”, come se quella invocazione fosse in grado di far rivivere l’eroe delle Termopili…Noi non sappiamo se in quella spianata urlò veramente, o se l’idea gli venne in poltrona, al caldo, durante la stesura del libro. Ma quel grido disperato e commovente vale il viaggio e lascia il lettore stupefatto.
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Torniamo a Theroux e al suo rifiuto della contaminazione dei due generi: l’invenzione che si finge realtà, l’immaginazione che si impone sulla descrizione. Sono rilievi sensati, ma più di una volta nel suo Un treno fantasma verso la stella dell’Est, un classico della cosiddetta letteratura di viaggio, egli rivela di aver ora “colorito” un incontro, ora modificato luoghi e persone per meglio legare una storia, e insomma chiunque non miri a fare un baedeker sa che lo scrivere di viaggi è spesso e volentieri un pretesto per scrivere d’altro e la scelta dei luoghi funge un po’ da canovaccio all’interno del quale inserire racconti e riflessioni.
Scrive Theroux che “viaggiare è uno dei modi più indolenti di passare il tempo. Il viaggio è un’evasione che ci gratifica perché la nostra vistosa assenza attira l’attenzione. E’ un vagabondaggio che ci consente di intrometterci nelle vite private di altra gente, dunque di andare all’offensiva anche se siamo parassiti in fuga. Il viaggiatore è il più avido fra i voyeurs romantici, e in qualche parte ben nascosta della sua personalità c’è un groviglio inestricabile di vanità, presunzione e mitomania che sfiora la patologia. Infatti il peggior incubo del viaggiatore non è la polizia segreta, lo stregone o la malattia, ma la prospettiva di incontrare un altro viaggiatore”.
A tutto ciò si aggiunge in Un treno fantasma un’esperienza che Theroux non aveva mai considerato, rassicurante e insieme inquietante. Essa è data dall’età, dal fatto cioè che il viaggiare (il viaggiare, non il turismo…) è solitamente connesso alla giovinezza e che la vecchiaia, ancor più che nella vita quotidiana, ti condanna all’invisibilità. Gli anziani, o i vecchi che dir si voglia, finiscono per essere agli occhi degli altri trasparenti, come se non esistessero: i ragazzi non considerano la loro presenza, gli uomini maturi semplicemente la ignorano…
In queste osservazioni ironiche e disincantate di Theroux c’è la malizia e un po’ la consapevolezza del viaggiatore esperto, perché è altresì vero, come nota lui stesso, che “viaggiare significa vivere fra persone sconosciute, fra le loro puzze e le loro profumazioni acri, tollerare le loro opinioni, non avendo magari una lingua in comune, essere sempre in movimento verso destinazioni incerte, mettere insieme itinerari che cambiano continuamente, inventarsi il viaggio ogni giorno, rabberciare una serie di piccole abitudini per conservare la calma e il senso della ragione, saper riempire le giornate, sgombrare la mente dai pregiudizi”.
Come tutti quelli che sono attratti dal viaggiare in sé, Theroux ne ha un’idea spartana: “Il lusso è nemico dell’osservazione, ti vizia e ti infantilizza, e ti impedisce di vedere il mondo”. E’ un’altra osservazione sensata, ma la sua sensatezza sta nel non farne un dogma. In questo suo giro del mondo ferroviario, più di una volta egli sceglie il bell’albergo, si premia con una cena lussuosa, preferisce le cuccette di prima classe…Chi viaggia sa benissimo che si è disposti a soffrire se poi ci si concede qualche piccolo spazio di felicità fisica e mentale, quell’idea di “lusso, calma, voluttà” che Baudelaire immortalerà in una sua poesia.
Proprio perché costruito come un vagabondaggio su strade ferrate, il meglio del libro è dato dagli incontri e dai contrasti. Sotto questo profilo, il treno resta l’elemento di locomozione ideale: è sufficientemente veloce, ma non al punto di impedirti di vedere; sufficientemente comodo per scrivere e per parlare; ci puoi fare tragitti sufficientemente lunghi per allacciare legami che però scioglierai con facilità alla stazione d’arrivo.
Un treno fantasma è anche l’occasione per Theroux di verificare quanto sia cambiato il mondo in quest’ultimo quarantennio. La nuova India della “pirateria degli affari” e di una densità anagrafica ormai abnorme, lo spaventa, il Giappone ipertecnologico dove gli spazi privati si restringono sempre di più lo affascina e insieme gli provoca repulsione, il Vietnam convertitosi al capitalismo, ma mantenendo un’anima orientale lo commuove e a volte lo incanta, la Thailandia gli sembra meno corrotta e più umana delle nuove democrazie che l’implosione dell’Urss comunista ha disseminato sul suo antico territorio. “Solo i vecchi possono veramente notare che il mondo sta invecchiando senza grazia, solo loro possono sapere quanto abbiamo perduto. C’è speranza?’ Sì. La maggior parte delle persone che ho incontrato casualmente mi ha aiutato. Noi fantasmi fortunati possiamo viaggiare ovunque. Essere in movimento va ancora bene, perché gli arrivi sono partenze”.

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Questo degli “arrivi come partenze” introduce un altro elemento, quello dell’avventura, nel senso vero del termine, ciò che, appunto, arriva. “Ogni viaggio si raddoppia di un’esplorazione interiore” ha scritto Marguerite Yourcenar. “Come la lettura, l’amore e il dolore ci offre splendidi confronti con noi stessi e fornisce di temi il nostro monologo interiore”. Francese, nata a Bruxelles nel 1903, naturalizzata americana nel 1947, da bambina e poi ragazza la Yourcenar non era mai andata a scuola, educata in casa da insegnanti privati e in giro avendo viaggi e libri a mo’ di precettori. Dalla Grecia alla Spagna all’Europa orientale, viaggiare diventava per lei un esercizio di erudizione e di sensibilità: l’azzardo dei luoghi e degli incontri, il fascino della natura. Era anche il modo migliore per liberarsi dei pregiudizi, della ristrettezza di spirito, così come dei facili entusiasmi, l’occasione per verificare che l’umanità è dappertutto la stessa, sottomessa alle medesime prove, e che l’essere umano è un fondo una piccola cosa, E forse è anche per questo che “in pochi amiamo a lungo il viaggio, questa violazione continua di ogni abitudine, questa scossa incessante a tutti i luoghi comuni”.
Figlia di buona famiglia, orfana di madre, l’infanzia e la giovinezza della Yourcenar furono quelle di una giovane donna che viaggia con cameriera e precettore, lenzuola e cuscini al seguito per evitare ogni contatto con la sporcizia degli alberghi…E’ la Francia del Midi, Provenza e Costa Azzurra, il suo primo terreno d’elezione, e poi Parigi dove Marguerite arriva a dieci anni e che, se si eccettua un anno in Inghilterra allo scoppio della Prima guerra mondiale, resterà la sua città sino agli anni Venti, quando si sceglie un nome d’arte (de Creyencour è quello paterno), pubblica i primi libri di poesie a proprie spese, è pronta per il periodo “turbolento” della sua vita che coinciderà con la Grecia e l’Italia, gli affanni del sesso e del cuore, il rafforzarsi di una vocazione artistica.
Di quell’adolescenza parigina, gli rimangono impressi “il gusto del colore e della forma, la nudità greca, il piacere e la gioia di vivere” delle visite bisettimanali al Louvre, dove “i grandi alberi di Poussin e i boschi di Claude Lorrain mettevano le radici dentro di me” e il dito alzato del San Giovanni e del Bacco leonardeschi “all’ingresso della loro caverna mi indicava non so quale luce verso cui andavo senza saperlo. Amavo una piccola testa staccata dai fregi del Partenone a un punto tale che avrei voluto abbracciarla”.
Al Louvre, alle rovine di Cluny, si aggiungono Saint-Julien –Le-Pauvre e la sua liturgia siriana, la chiesa greca e la chiesa romena ortodossa, quella armena e la chiesa russa di rue Daru, con le nobili dai guanti tagliati per lasciare spazio alle enormi pietre, diamanti e turchesi, dei loro anelli, e che nel dopoguerra rivedrà trasformate in fantasmi di un passato imperiale che la rivoluzione bolscevica ha spazzato via.
Con il tempo le istitutrici lasceranno il posto alle amiche e agli amici, compagni e amanti, archeologhi e esperti d’arte, storici: “Debbo ciascuno dei miei gusti all’influenza di amici occasionali, come se non potessi accettare il mondo che per il tramite di mani umane”. Ma con il tempo viene anche la consapevolezza che per vedere bene, e in fondo per viaggiare, si deve essere soli. Dirà citando Montherlant: “Un museo che si visita con il suo direttore, è un museo che non si è visto”.
Negli anni fra le due guerre, il Mediterraneo diviene il luogo d’elezione della Yourcenar: la Spagna, in specie l’Andalusia, la Grecia, in specie il Peloponneso e le isole, l’Italia, in specie Roma, Napoli, il suo sud. Sono viaggi di storia e di memoria, ma soprattutto sono viaggi dove la natura, la geologia addirittura, sono il rifugio e il fine di tutte le cose. Nel suo ultimo romanzo, Un homme obscure, il protagonista morirà solo, eppure in compagnia: “Intorno a lui, c’era il mare, la nebbia, il sole e la pioggia, le bestie dell’aria, dell’acqua e del bosco; viveva e moriva come fanno gli animali. Questo era sufficiente”.
Le pagine più belle e più penetranti dell’esistenza-viaggio-naufragio, di questa “pellegrina e straniera” per gran parte della sua vita sono quelle dedicate alla Spagna, sul cui confine atlantico “l’Europa si afferma e insieme si esaurisce”. Porta del Mediterraneo a ovest, come l’ Ellesponto lo è a est, “a Granada come a Costantinopoli incontriamo la punta avanzata del mondo delle tende e del deserto stabilitosi nel mezzo dei giardini d’Europa. Cadice servì al mondo greco-romano come portale sull’Atlantico, così come l’antica Bisanzio lo fu sul mar Nero e l’Asia”. La Spagna cattolica della Riconquista le appare una continuazione di quella romana degli Scipioni: “Sagunto e Numanzia, fedeli sino alla morte e alle fiamme dei roghi, l’una a Roma, l’altra a Cartagine, elevano sul suolo iberico due contraddittorii esempi di lealtà. All’Alhambra rinfrescata dal vento dell’Oriente islamico, si oppone a Granada il severo palazzo di Carlo V.” Nell’insieme, l’eredità romana le sembra ciò che in Spagna sia rimasto di più duraturo e inalterabile: dalla danza alla cucina, dai sanguinosi giochi del circo alla religione profonda, dal senso austero e patriarcale della famiglia, alla costruzione stessa della casa: atrio, patio, fontana….
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Il fatto è che in fondo si comincia sempre allo stesso modo, pancia a terra sul tappeto di casa, l’atlante squadernato davanti. I nomi di luoghi lontani sono come un mantra, le cartine geografiche la mappa di tesori nascosti eppure reali…Il resto lo fanno i romanzi d’avventura: Dumas, Verne, Stevenson, Salgari, Fenimore Cooper, esplorazioni e intrighi, mohicani e moschettieri, isole incantante, “l’impazienza del mondo” dietro ogni pagina. Prendiamo uno scrittore come lo svizzero Nicolas Bouvier. Nato nel 1929, ha dieci anni quando scoppia la Seconda guerra mondiale, sedici quando finisce: a diciassette è subito in Italia, a diciotto già in Finlandia, a venti nel Sahara, a ventuno nei Balcani e poi in Turchia…E’ un po’ come se prendesse la rincorsa per il grande salto: lo spicca nel 1953, ventitreenne, insieme con un amico pittore, Thierry Vernet, e a bordo di una Fiat Topolino che i due hanno passato a smontare e rimontare durante l’inverno precedente, mille pezzi di cui conoscono a memoria l’utilizzo. Insieme arriveranno sino in Afghanistan poi, da solo, Bouvier attraverserà l’India, sbarcherà a Ceylon, arriverà in Giappone. Tre anni di viaggio, seguendo l’insegnamento del Gobineau delle Novelle asiatiche: “Non avrete nient’altro da fare che proseguire, dove vorrete, come vorrete, presto o lentamente, niente e nessuno che vi metta fretta. Io ho conosciuto questa vita. E non faccio che rimpiangerla”. Ovvero, e detto in altri termini, “un viaggio non ha bisogno di motivi. Non ci mette molto a dimostrare che si giustifica da solo. Pensate di andare a fare un viaggio, ma subito è il viaggio che vi fa o che vi disfa”.
Bouvier è un nome che l’Italia sta ancora scoprendo e il suo nomadismo è racchiuso in questa frase: “Non si viaggia per addobbarsi di esotismo e di aneddoti come un albero di Natale, ma perché la strada ci spiumi, ci strigli, ci prosciughi, ci trasformi in quelle salviette consunte che ci vengono date, con una scaglia di sapone, nei bordelli. Ci si allontana dagli altri e dalle maledizioni della nascita e in ogni fagotto bisunto delle sale d’aspetto strapiene, sui marciapiedi angusti di stazioni soffocanti di miseria e di calore, ciò che vediamo passare è la nostra bara. Senza questo distacco e questa trasparenza come poter sperare di far vedere ciò che si è visto?” Dato quanto sopra, non sorprenderà sentirlo dire di aver lasciato nei suoi viaggi “tutti i miei denti e metà delle mie gambe” e paragonare la fatica della scrittura alla “libbra di carne di Shylock”, sangue e inchiostro, insomma…
Eppure, se c’è un libro di viaggio pieno di gioia di vivere e di freschezza, di attonito stupore e di continuo buonumore questo è il suo L’usage du monde, racconto iniziatico e, al contempo, atto di fiducia verso ciò che ci circonda e che ci è ignoto, diario di incontri e di tramonti, di scambi e di gentilezze, una continua, ininterrotta festa mobile di scoperte, allegrie, contrattempi, attese, aggiustamenti…Lungo un periplo orientale che sembra non aver mai fine, Bouvier cerca quell’autenticità che solo il più completo abbandono e distacco da ciò che si è può permettere: “Come se fosse acqua il mondo ci attraversa e per un istante ci regala i suoi colori. Poi si ritira e ci rimette davanti a quel vuoto che ci portiamo dentro, davanti a quella specie di insufficienza dell’anima che bisogna imparare a combattere e che, paradossalmente, forse il nostro motore più sicuro”
Fra L’usage du monde e un altro suo libro, Le poisson-scorpion c’è la differenza fra chi ha fino a un momento prima pensato che quell’ ”uso” fosse senza impegno e senza contropartite, e chi all’improvviso si accorge che c’è un lato nero, ossessivo di quello stesso mondo, una sorta di malia che imprigiona, che sfinisce fisicamente, ma in realtà corrode spiritualmente. Il viaggio interiore al fondo di se stesso si trasforma allora in naufragio, la natura diventa sovrana, ma non dispensa più le sue grazie, l’atlante si fa bestiario e gli insetti prendono il posto degli esseri umani. Come per una nemesi, Bouvier si ritrova a espiare la prodigiosa, estatica felicità che gli aveva permesso prima di attraversare Paesi e continenti quasi fosse aureolato di intoccabilità, Ceylon, l’isola del sorriso e delle guide turistiche, è la trappola in cui scontare la colpa di aver confidato troppo nel mondo.
Partito nel pieno della sanità fisica, Bouvier si accorge a proprie spese che l’alchimia della vita è capace delle combinazioni più bizzarre e che c’è più certezza in uno stato di crisi che non nella perfetta integrità. La scrittura diventa così un tentativo di apertura alla polifonia del mondo senza che questo significhi la sua conoscenza o, peggio, il suo possesso. “Il y a le destin, et tout ce qui ne tremble pas en lui n’est pas solide”. Ci vuole un terremoto per divenire se stessi.


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