La Kabbalà insegna che D-o creò il mondo poiché Egli desiderò una dimora nei mondi inferiori (nitavà lo Hakadosh Baruch Hu dirà betachtonim). Egli creò gli esseri umani, divisi per sessi in uomo e donna per portare il suo desiderio a buon fine. Sia l’uomo che la donna hanno un ruolo preciso da svolgere, consono alla loro essenza, senza il quale la Dimora Divina non sarebbe completa. Mi piace la metafora della costruzione di una casa vera e propria, alla quale innumerevoli persone prendono parte, ed ognuno, dall’architetto al falegname al elettricista sono cruciali alla buona riuscita della costruzione della casa, se mancasse uno, la casa non sarebbe completa. Il mondo non è una casa completa senza il contributo degli uomini e delle donne. Tornando un attimo alla metafora, tutte le tubature ed i vari fili che rendono la casa una cosa che funziona e che vive a modo suo, non si vedono, sono nascoste all’occhio umano, eppure senza queste la casa non sarebbe vivibile. Così è nella vita reale.
L’uomo si vede, si sente, va alla conquista, e alla riscossa, mentre la donna è meno appariscente, riservata, quasi silenziosa ma non per questo meno importante. Questo microcosmo si ripropone anche nell’andamento dell’universo e si riflette nel modo che identifichiamo il ruole maschile e femminile nelle mitzvòt. Il ruolo maschile, derivante dall’aspetto maschile del Creatore, si concentra più sulle azioni e sul ruolo pubblico, mentre quello femminile, che proviene dalla Shechinà, la presenza Divina, l’aspetto femminile del Sign-re, è un ruolo interno, meno visibile ma al quanto presente proprio come la Shechinà che si trova ovunque ma non si vede. È importante tener presente che questi sono due aspetti di un’unica essenza inscindibile proprio come la forza del pensiero e la forza di esprimere tale pensiero sono entrambi prodotti di una mente sola.
Mentre un uomo ha bisogno dell’azione pubblica della aliyà, la salita al Sefer per essere elevato, la donna non ne ha bisogno perché essa è spiritualmente più elevata e non ha bisogno di ‘salire’, di essere innalzata, poiché è innatamente in un posto superiore. Idem per la milà, la kippà ed i tzitzìt, la donna non ha bisogno di un ricordo tangibile che D-o è sovrano su di lei – ce l’ha nel suo DNA.
Quando D-o creò il mondo, come viene riportato in Genesi 1, Egli mise ogni cosa a suo posto e vi diede una funzione ed un ruolo particolari. Il sole illumina, gli uccelli volano, l’uomo conquista e discute – la donna nutre e parla. La Torà scritta e quella orale sono entrambe Torà, entrambe la parola Divina. Entrambe lavorano in tandem per creare l’ebraismo che conosciamo – l’Ebraismo che si adatta ad ogni situazione senza essere cambiata, l’ebraismo che si rinnova pur rimanendo costante ed eterno. È un equilibrio del celeste e del terreno, soltanto che il secondo aspetto della Torà, il femminile emerge lentamente, con il passare del tempo fino all’epoca Messianica, quando la Torà che Mashiach insegnerà, non una Torà nuova, ma un insegnamento in una nuova dimensione – quella femminile – sarà divulgata. È scritto nel midrash: “La Torà che studiamo ora, è hevel (vuoto) paragonato alla Torà di Mashiach”.
Ciò la dice lunga sul ruolo della donna nell’Ebraismo.
L’ebraismo mette la donna su un piedistallo, e contemporaneamente le da spazio e la incoraggia a crescere fisicamente e spiritualmente. Le scuole e le yeshivòt che ho frequentato mi hanno permesso di conoscere me stessa, di focalizzarmi sulla mia spiritualità pur dandomi lo spazio di trovare il mio posto nel mondo materiale. Ricordo con gioia i momenti di contemplazione ed introspezione prima della Tefillà ogni mattina, ricordo la sensazione di avvicinamento a me stessa ed a D-o. Ora sono una mamma giovane di bambini piccoli grazie a D-o, non ho molto tempo per meditare e pregare, non solo perché sono presa tra pannolini, pappe e raffreddori, ma perché insieme a mio marito dirigo un centro ebraico, do lezioni e consulenze a chi ha bisogno di aiuto morale e/o spirituale, dirigo un gruppo giovanile e collaboro con un sito internet internazionale dove in passato ho svolto mansioni di editrice e produttrice.
Nessuno mi obbliga a vivere in questo modo. Se è vero che sono nata in una famiglia Chabad-Lubavitch e che sono stata allevata con forti valori ebraici, sono cresciuta a Roma, immersa in un mondo non religioso, con gli occhi aperti al mondo esterno e ben conscia di ciò che avviene ‘là fuori’. Eppure ho scelto di vivere la mia vita e di crescere i miei figli in questo stesso modo, perché trovo che esso rappresenta il giusto equilibrio per tutto.
Questa è la donna Ebrea. Una persona che sa da dove viene, sa dove sta andando, è sicura di se e sa qual’è la sua missione nella vita. Viviamo in un’epoca dove il bianco e nero sono molto sfocati, i ruoli maschili e femminile un tempo divisi nettamente non sono più così, si stanno lentamente accavallando.
È bello e giusto che l’uomo e la donna si incontrino, che la donna non è più rilegata in casa, ma che lavora e sviluppa i suoi potenziali; che l’uomo è più partecipe nell’andamento della casa e nella crescita dei figli. Tuttavia, è importante ricordare che l’uomo è l’uomo, con le sue qualità e la donna è la donna, nulla può cambiare questo fatto.
Per nulla al mondo rinuncerei al potere di Chava – la Madre della Vita, di dar vita a un essere umano, di portare una nuova neshamà in questo mondo. Questo potere mi rende ancora più vicina a D-o al Creatore di tutto e di tutti – pensate! Io, piccola Chani, giovane donna Ebrea ho il potere di creare una nuova vita, di nutrirla e crescerla! Non scambierei questo potenziale per nulla al mondo.
Scrisse il Re Solomone: “Una donna di valore è la corona del marito”, spiegano i maestri chassidici: arriverà il momento quando il femminile sorpasserà il maschile in questo mondo, come una corona che viene messasopra al capo.
Per millenni il mondo è andato avanti con la tirannia, il dominio, la forza bruta – tutti aspetti prettamente maschili; ora le correnti si stanno lentamente ed inesorabilmente puntando verso la saggezza del dialogo, verso la dolce persuasione femminile, verso il mondo a venire, l’Olam Habbà – il mondo di Mashiach.
Chani Hazan
La Donna Ebrea e la Famiglia
Cara Chaya,
Nelle comunità ebraiche di oggi esiste un numero sempre maggore di persone non sposate e senza figli, sia per scelta sia per altre circostanze. Nel ricercare la loro identità ebraica esse si domandano spesso se vi sia per loro un posto o meno all’interno della comunità. Dopo tutto, si ripete spesso che la famiglia è il centro della vita ebraica, la sorgente della sua forza e il fulcro della sua identità, specialmente per le donne. Le donne ebree vengono lodate in quanto “fondamento della casa”; si sottolinea sovente il loro raolo decisivo nell’educazione dei bambini. Per una donna non sposarsi deve quindi essere considerato un fallimento? Esiste forse all’interno dell’ebraismo un ruolo per la donna che non sia quello di madre? C’è qualche altra cosa da fare oltre a cucinare o allevare bambini? Una donna ebrea pnò avere una propria identità spirituale, specie nel mondo ortodosso?
Lettera firmata
Tutto ciò che si è detto circa l’importanza della vita familiare ebraica è certamente vero. Tuttavia, a un livello più profondo, l’ebreo non viene definito da ruolo, carriera, sposa, figli, introito economico, né classe sociale.
Infatti, l’essenza dell’ebreo, sia uomo che donna, ha la sua radice nell’essenza del Sign-re.
Rabbi Shneur Zalman di Liadi scrive nel Tania (cap. 2) che l’anima è «veramente una parte di Dio», e il Rebbe di Lubavitch, Rabbi Menachem Mendel Schneerson sottolinea sovente che il verso: «Mosè ci ha comandato la Torà come eredità per la casa di Giacobbe» (Deut. 33:4) significa che la Torà intera è patrimonio ed eredità di ogni ebreo, anche di chi ha scelto di non farne uso, o ne ha perso le chiavi d’accesso.
I valori della Torà sono permeati dall’importanza cruciale della relazione tra ogni ebreo e la sua eredità. Esiste un famoso midrash (Shemòt Rabba 28) che afferma che quando la Torà fu data sul Sinai, erano presenti tutte le anime che sarebbero venute alla vita nel futuro, e tutte quelle che avevano vissuto nel passato, insieme a quelle che vivevano in quel momento. Se una sola di loro fosse stata assente, la Torà non avrebbe potuto essere data. La Torà dichiara che ogni persona è un mondo in miniatura, un’unità completa in se stessa.
Come dice il Talmùd: «L’uomo fu creato individuo singolo per insegnare che chiunque distrugge una vita, distrugge un mondo intero; e chiunque salva una vita, salva un mondo intero» (Sanhedrìn 4,5).
Maimonide sottolinea questa idea quando scrive: «Ogni persona dovrebbe sempre considerare il mondo metà colpevole e metà innocente. Se commette un solo peccato in più egli fa pendere il piatto della bilancia a sfavore del mondo intero, e ne causa la distruzione. Se esegue un solo comandamento egli rialza il piatto del merito, a suo favore e a favore del mondo intero, e porta la redenzione a sè e alle altre creature…» (Leggi di Teshuvà 3:4). Ciò si applica sia agli sposati, sia ai singoli, agli uomini e alle donne. I1 Rebbe aggiunge che non soltanto una buona azione, ma anche una buona parola o un buon pensiero possono far pendere la bilancia dalla parte del merito, portando effetti positivi su tutta la creazione.
Inoltre, ogni ebreo non ha solo un effetto immenso sullo stato del mondo, ma anche sul Sign-re. Il Talmùd dice: «Quando gli ebrei vennero esiliati, la Shechinà (presenza divina) andò in esilio con loro» (Meghillá 29a). Metaforicamente parlando, è come se il Sign-re soffrisse insieme agli ebrei. Nel Tania (cap. 17, fine cap. 24) I’Alter Rebbe spiega che ogni trasgressione compiuta da un ebreo cause l’aggravarsi dell’esilio della Shechinà.
Viceversa, tramite ogni buona azione compiuta, l’ebreo aiuta la riunificazione di se stesso e del mondo con il Sign-re e porta alla completezza del mondo intero.
È dunque chiaro che ogni ebreo – qualunque sia il suo stato sociale o familiare – ha un effetto importantissimo su ogni altro ebreo, sul mondo e sul Sign-re stesso.
Quando si discute il ruolo della donna ebrea, si sollevano frequentemente domande sui suoi obblighi verve le mitzvòt.
A questo proposito la differenza più significativa tra uomo e donna nell’ebraismo sta nel fatto che la donna non ha l’obbligo di seguire i precetti legati a un orario preciso, come ad esempio il mettere i tefillìn (filatteri) ogni giorno entro l’ora
stabilita. Tali esenzioni sono state spesso interpretate come un’affermazione dell’inferiorità della donna. Ma questa è un’interpretazione che si ferma alla superficie del problema. Infatti alla donna non vengono richieste soltanto le poche mitzvòt legate al tempo. Perché? Perché lei è già nel tempo della terra, della nature, del Sign-re. Con il suo ciclo, le gravidanze, i figli, il suo istinto materno, non ha bisogno di essere legate al Sign-re ulteriormente. L’uomo invece, ha bisogno di regole che ne organizzino il tempo e non lo lascino in balia dei suoi istinti. Questo però non significa che la donna nubile (che non ha impegni familiari) non posse osservare anche i precetti legati al tempo. Infatti spesso succede che la donna non sposata si assume l’impegno di pregare in momenti precisi, allo stesso modo dell’uomo, fino al momento del matrimonio.
La Purezza Familiare – Taharàt Hamishpachà
Introduzione
La purezza familiare, Taharat Hamishpachà costituisce il fondamento più solido del matrimonio ebraico.
La purezza, la santità, hanno sempre caratterizzato la famiglia ebraica. Fondata sui precetti della nostra Torà, la Torà di Vita, ‘il matrimonio ebraico è designato con il termine ‘edificio eterno’. Tale duratura costruzione, grande e stabile, dalle solide basi, colpisce per il suo sviluppo armonioso, per la sua perennità attraverso tutte le convulsioni della storia, malgrado tutti gli sconvolgimenti di un mondo sovente ostile.
Assicurando il rispetto reciproco degli sposi, garantendo l’equilibrio dei figli, la purezza familiare, è stato il riparo inviolabile del focolare ebraico attraverso tutti i tempi. Esso è il segreto della nostra sopravvivenza, tanto per il popolo quanto per l’individuo. Così ci insegnano i nostri saggi: “Voi meritate il titolo di uomini per la purezza in cui siete nati”.
Quando si vive in osservanza delle leggi della Taharat Hamishpahà, i genitori creano per i loro figli, come per se stessi, un’atmosfera favorevole. Essi mettono al mondo un essere che porta in sè sia fisicamente che spiritualmente, il segno di un più grande raffinamento.
Nell’osservarle, è l’integrità del nostro popolo che noi preserviamo, poiché nel generare figli puri e santi, assicuriamo l’eternità personale e del popolo. Poiché al di fuori dell’importanza della Mitzvà, essa costituisce la preparazione al nostro ritorno in Israele, grazie alla venuta del Mashiach, il Messia.
Legge dì Niddà: breve prospetto
Il periodo mestruale della donna la rende niddà, tradotto letteralmente come separata o rimossa. Questo stato dura almeno cinque giorni, o più, fin quando il flusso non sia completamente cessato. Inoltre si contano altri sette giorni puliti, shivà neki’im..
Lo stato di niddà si può rimuovere soltanto con l’immersione nell’acqua di un mikvè casher, la notte dopo il termine del settimo giorno di purità. Durante questo periodo (di un minimo di 12 giorni) è severamente proibito alcun rapporto e contatto sessuale tra moglie e marito. Le stesse leggi si applicano in qualsiasi caso vi sia emissione di sangue non nel periodo mestruale, i.e., dopo un parto, ecc. È importante enfatizzare che lo stato di niddà persiste anche quando il flusso è cessato, finché la donna non s’immerge nel Mikvè. Il bagno o la doccia a casa non possono in alcun modo sostituire la funzione unica del mikvè o elevare la donna allo stato di purità; essi servono solo come passi preparativi all’immersione nel mikvè.
Visita a un Mikvè
Al primo sguardo, un Mikvè differisce poco da una piccola piscina. L’acqua vi sale all’altezza del busto e lo spazio è sufficiente perché tre o quattro persone possano starvi comodamente. Ci sono delle scale che discendono dentro l’acqua del mikvè per facilitarne l’accesso. Se guardate più da vicino, vedrete un piccolo buco da 8 a 10 cm. entro una delle pareti appena al di sotto del livello dell’acqua. Questo buco può apparire banale ma è ciò che conferisce al bacino lo statuto di mikvè.
Alla fine opposta di questo piccolo buco, c’è un tetto removibile al di sopra di un bor o cisterna che è la parte essenziale del mikvè. Questo bor è un piccolo bacino in sè, ed è riempito d’acqua piovana. L’acqua piovana deve arrivare dentro questa cisterna in una maniera assolutamente naturale. In alcuni casi, può essere ugualmente utilizzata acqua di sorgente, di ghiacciaio o di neve sciolta, è consigliabile consultarsi con un rav.
Due altri dettagli sono obbligatori per questa cisterna, oltre all’acqua piovana. Innanzitutto, questa deve contenere almeno 40 seà. Il seà è un’antica unità di misura biblica, equivalente approssimativamente a 18 litri di acqua di modo che il mikvè contenga circa 760 litri d’acqua piovana al minimo.
Inoltre, il bacino deve essere scavato nel suolo. Non deve essere di una struttura qualunque che si può sconnettere e trasportare come un barile, o una vasca. In certe condizioni si può costruire in un edificio.
Il bacino stesso può essere utilizzato come mikvè, ma siccome è più difficile cambiarvi l’acqua, serve piuttosto da sorgente ad un bacino che gli è collegato, e li conferisce così lo stato di Mikvè. Questo grande bacino può essere riempito d’acqua di rubinetto e venire cambiato ogni qualvolta sia necessario.
Il solo obbligo è che sia collegato all’acqua proveniente dal bor attraverso un’apertura di almeno 8 cm. di diametro. Unendo i due bacini e permettendo alle loro acque di mischiarsi, l’acqua del grande bacino acquisisce lo stesso stato di quella del bacino piccolo: il miscuglio delle acque dei due bacini è chiamatohashakà.
Possiamo adesso quasi visualizzare un mikvè. Vediamo dunque la sua utilizzazione: ci sono tre situazioni fondamentali dove l’immersione in un mikvè è richiesta dalla legge ebraica.
1 . – Una donna non può avere relazioni intime con suo marito alla fine del suo ciclo mestruale, prima di essersi immersa nel mikvè. Questa è una legge biblica di massima severità.
2. – L’immersione in un mikvè è parte integrante della conversione all’ebraismo Senza l’immersione la conversione non è valida. Ciò vale sia per le donne che per gli uomini.
3. – Le pentole, stoviglie e gli altri utensili alimentari fabbricati da un non ebreo devono essere ugualmente purificati attraverso l’immersione in un mikvè prima di esere utilizzati. Questa è una legge indipendente da quella del casherùt.
Vi sono altre circostanze in cui si utilizza il mikvè. Per esempio è usanza stabilita di immergervisi prima di Yom Kippur in segno di pentimento e purezza. Molti chassidim s’immergono prima del Shabbat per poter essere più recettivi alla santità di questo giorno e perfino ogni mattina. In questo contesto generale, l’immersione in un mikvè è un processo di purificazione spirituale.
Nei tempi antichi il mikvè aveva un’altro importante funzione legata ai tipi differenti di tumà o macchia rituale.
Tumà e Taharà – Impurità e purità,
Perché, ci si potrebbe domandare, una donna viene designata impura durante il suo periodo mestruale? Perché, a causa di un processo naturale del suo corpo, deve provare sentimenti di inferiorità?
In breve (per una spiegazione più completa dei concetti di Tumà e Taharà, vedi il Dossier di Lubavitch News numero 17), i concetti di impurità e purità non hanno niente a che fare con l’interpretazione comune di queste parole, i.e. sporcizia e pulizia fisica. Questi sono invece, concetti spirituali legati alla santità e vitalità spirituale, taharà, e alla sua assenza Tumà.
Una donna attiene ad un potenziale enorme di santità attraverso la capacità divina di creazione per la quale il suo corpo si prepara ogni mese. Quando questo potenziale non è realizzato, la kedushà, fonte di vita e vitalità, si allontana, ed i residui della vita potenziale sono rimossi del corpo. Questa discesa mensile verso tumà non significa che la donna è, D-o ne liberi, peccatrice, degradata, inferiore, o marchiata. Al contrario, proprio perché ella ha il potere divino e sacro di creare un nuovo essere nel suo corpo, esiste la possibilità di una maggiore impurità.
Le forze dell’impurità si nutrono della kedushà, santità stessa, e quindi si installano proprio dove c’è una maggiore kedushà. Questo può essere paragonato ad un barile che ricolmo d’acqua fino al bordo, trabocca, ed annaffia anche le erbacce accanto.
La discesa temporanea della donna verso l’impurità di niddà, però, ha solo uno scopo e un fine: l’ascesa maggiore, attraverso l’immersione nell’acqua purificatrice del mikvè ad un livello ancor più alto di quello ottenuto nel mese precedente.
Qual è il ruolo del mikvè nel processo di trasformazione dello stato di tamè (impuro) a tahòr (puro)? La chassidut ci fornisce ancora una volta una risposta. Per elevarsi da un livello ad un’altro si verifica necessario un periodo transitorio di nullificazione. La seguente analogia ci sarà di grande aiuto per comprendere questo fenomeno.
Non appena un chicco è piantato nella terra, questo deve dapprima disintegrarsi, perdere la prima forma per poter spuntare. Di pari passo, per raggiungere un livello superiore dobbiamo anzitutto perdere, annullare, disintegrare il livello anteriore. Ed è allora che il mikvè trova la sua ragione di essere: ci immerge nelle acque del bittùl, dell’annullamento ma solamente transitorio. Come la chassidut insegna, le lettere ebraiche della parola bittùl, possono essere girate per leggere la parola tevilà – immersione. Un’altra indicazione del rapporto che unisce questi due termini.
La mitzvà del mikvè consiste nell’immergersi totalmente dentro l’acqua, senza che un solo capello ne rimanga fuori. Questa immersione assoluta e totale torna a farci perdere il nostro sentimento d’esistenza, d’indipendenza, per divenire un ricettacolo per il Divino.
Maimonide scrive nel suo Codice di Leggi Ebraiche, la Mishnè Torà (Mikvaot 11:12) che questa immersione esige la purezza e l’intenzione del cuore, la ferma volontà di purificarsi spiritualmente da tutti i pensieri cattivi e dai propri difetti, infine d’immergere la nostra anima dentro le acque della comprensione.
Il Rebbe di Lubavitch spiega che l’immersione nelle ‘acque purificatrici della comprensione’ è legata alla ingiunzione talmudica che stipula che a Purim dobbiamo bere ‘fino a che non facciamo più distinzione fra Hamman il maledetto e Mordechai il benedetto’. ‘Bere fino a che non si sa più’ significa che un ebreo non deve limitarsi (contentarsi) del quadro ristretto della propria comprensione della Torà, ma oltrepassare tutti i limiti per estirpare tutti i tratti negativi del carattere e tutte le idee cattive. L’acqua è uno dei simboli che rappresenta contemporaneamente la Torà e la Saggezza Suprema. La Torà ha il potere di purificare tutto quello che c’è di cattivo in noi e di elevarci nella spiritualità. L’acqua rappresenta per la sua insipidità l’attitudine di kabbalàt ol, l’accettazione del giogo divino, la sottomissione totale ed incondizionata all’adempimento scrupoloso delle mitzvòt.
Alcuni insegnamenti chassidici enfatizzano il legame stretto che esiste fra il mikvè ed il diluvio dell’epoca di Noè, chiedendo due domande: come mai l’acqua è stato lo strumento scelto per la distruzione degli uomini perversi di quella generazione? Perché il diluvio è durato un periodo così lungo, 40 giorni e 40 notti? D-o avrebbe potuto eseguire il Suo castigo in un solo giorno.
La risposta proposta è che il diluvio non aveva per obiettivo una semplice punizione bensì, essenzialmente, la purificazione del mondo. Infatti le acque ricoprirono quasi totalmente la terra e questi 40 giorni e 40 notti corrispondono alle 40 misure, seà, di acqua richieste perché un mikvè sia casher. Dopo il diluvio, il mondo fu purificato, puro.
Per ritornare al nostro soggetto, la legge ebraica asserisce che una donna non diventa pura fino a quando non esce dal mikvè e non quando vi si trova ancora immersa. Il Rebbe di Lubavitch spiega questo paradosso: lo scopo ultimo della nostra elevazione spirituale non è di uscire dal mondo, di vivere in eremità, isolati dentro la torre d’avorio confortevole della preghiera e dello studio.
Lo scopo della creazione è invece, di fare una dimora per D-o nel mondo. In altri termini è nostro dovere impregnare il mondo ed i suoi luoghi più bassi della spiritualità acquisita nel corso del nostro servizio divino. Siamo purificati non appena usciamo dalle acque del mikvè, non appena proiettiamo la nostra spiritualità all’esterno nel mondo.
40: la misura dell’uomo
La Torà ci dice (Levitico 12:2-4): “Quando una donna prolificherà e genererà un maschio sarà impura sette giorni; come nei giorni della sua mestruazione sarà impura… Dovrà poi attendere trentatrè giorni… “.
Se noi contiamo i giorni richiesti per la purificazione dopo il parto, arriviamo ad un totale di 40.
I nostri saggi ci insegnano che 40 giorni rappresentano il tempo necessario ad un embrione per acquisire forma umana. Dal punto di vista della legge ebraica, un embrione ha lo statuto di essere umano 40 giorni dopo il concepimento. Questo concetto è ugualmente valido da un punto di vista scientifico, poiché è risaputo che l’embrione comincia a prendere una forma umana riconoscibile dopo un lasso di tempo di circa 40 giorni dal concepimento.
Questa ci aiuta a spiegare perché il diluvio descritto nella Torà durò 40 giorni. Secondo le interpretazioni tradizionali la colpa principale che condusse al diluvio fu l’immoralità, i cattivi costumi. Il midrash riporta che il diluvio durò 40 giorni perché questa generazione « pervertiva l’embrione che viene formato in 40 giorni ».
Lo stesso concetto si applica ugualmente alla donazione della Torà, anch’essa legata all’idea della nascita. Il popolo ebraico nacque di nuovo sotto l’alleanza della Torà e la Torà stessa, nel venir trasmessa all’essere umano deve passare attraverso un processo di nascita. Come per la creatura umana questo deve prendere 40 giorni – questi stessi 40 giorni e 40 notti che Moshè trascorse senza bere né mangiare sul Monte Sinai.
Lo stesso ragionamento ci spiega perché gli Israeliti passarono 40 anni nel deserto. Quando Moshè inviò delle spie ad esplorare la Terra santa la Torà riporta (Numeri 13:25): « Tornarono dalla esplorazione del paese al termine di quaranta giorni ». Le spie sapevano che gli Israeliti dovevano passare attraverso una rinascita spirituale prima di entrare nella Terra Santa. Perché essi potessero conoscere questa rinascita e commentarla in seguito, gli esploratori passarono 40 giorni nel paese. Nel frattempo, non furono degni del paese, e dunque riportarono un rapporto negativo.
Di conseguenza a tale rapporto, gli Israeliti si ribellarono contro Moshè non volendo credere che D-o avrebbe loro concesso il paese. Fù decretato allora che dovessero passare 40 anni nel deserto, come dice la Torà (Numeri 14:34): « Secondo il numero dei giorni durante i quali avete esplorato il paese, cioè quaranta giorni, un anno per ogni giorno, voi sopporterete lapunizione delle vostre colpe per quarant’anni ». Questi 40 anni rappresentano ancora un altro modo di rinascere; la rinascita di un’intera generazione che sarà degna infine di entrare nella Terra Santa.
Constatiamo che il numero 40 rappresenta il processo di nascita. Come menzionato, è legato alla misura dell’essere umano. Questo spiega ugualmente i 40 seà d’acqua che deve contenere il Mikvè. Il Mikvè ugualmente rappresenta la matrice e questi 40 seà sono dunque paralleli ai 40 giorni durante i quali si forma l’embrione.
Pubblicato nel Lubavitch news N 18, Chabadroma.org in collaborazione con Chabad.it
Le donne nell’ebraismo,
tra diritti e parità di genere
Sulla divisione all’interno della sinagoga tra uomini e donne, il rabbino capo di Milano Arbib spiega che è una “divisione fondamentale e lo ricorda anche un Maestro come rav Joseph Soloveitchik. Se le donne però non sentono la tefillah, questo è un problema della struttura della sinagoga, si può mettere una mehizah (divisione) per rendere a tutti accessibile l’ascolto. Ma il Bet HaKnesset (la sinagoga) non è un luogo di incontro, è un luogo di preghiera, e mescolare uomini e donne rende difficile la preghiera, la separazione è un modo per concentrarsi sulla teffilah e non pensare ad altro”. A riguardo Calimani, in un discorso tenuto per la Giornata della Cultura ebraica dedicato alla donna, allarga la prospettiva e spiega la sua sensazione di marginalità: “Qualcuno si dimenticava di portare i libri in matroneo? Poco male, andavo a chiederne agli uomini. Il matroneo era inaccessibile causa lavori in corso? Poco male, mi mettevo a spostare le macerie e le seggiole rotte. Ci si scordava di mettere le candele per Tishabeav in matroneo? Poco male, scendevo a prenderle. Le donne avevano poco spazio durante il Tashlich? Poco male, chiedevo il permesso per avere uno spazio più ampio dedicato alle donne. Ma ogni volta pesava sempre di più. Un po’ alla volta capii che il problema era bidirezionale: da un lato gli uomini con la frequente disattenzione al mondo femminile e alle esigenze di chi, pur non essendo obbligato, sceglieva di adempiere alle mitzwoth; dall’altro le donne rassegnate e un po’ passive, che stavano là dove le avevano messe. Forse perché quello era sempre stato il loro posto, o forse (e allora beate loro) non ci si sentivano tanto a disagio quanto mi ci sentivo invece io”. Serve, aggiunge a Pagine Ebraiche, un impegno femminile, che le donne “si scrollino di dosso un po’ di passività: per le conquiste ci vuole impegno. Se no rimane lo status quo. Anche le suffraggette all’inizio non erano ascoltate”. L’esigenza, sottolinea, non è quella di rivoluzionare come nel caso dei reform ma “sapere ad esempio dai nostri rabbini quale la loro posizione rispetto alle donne che hanno voglia di fare”.
Per rav Arbib, il cambiamento chiave nella modernità rispetto al ruolo della donna è stato il peso dello studio: “prima, a parte rare eccezioni, le donne non studiavano. Succedeva fra gli ebrei, succedeva nel mondo circostante. Questa cosa è cambiata: ci sono scuole di altissimo livello, ortodosse, che preparano studi molti approfonditi. La scuola Beit Yaakov in Polonia è stata capostipite di questo cambiamento ed è un dato molto importante. E da qui ne sono nate molte altre”. Se a questa evoluzione possa seguire ad altre novità sul ruolo femminile, il rav risponde: “il cambiamento non può venire a sconvolgere la Halakha. L’argomentazione che tutti possono interpretare l’Halakha è tipicamente riformata. Non è così. Ci sono autorità rabbiniche in ogni epoca, a cui tutti facciamo riferimento. Le citazioni di opinioni più o meno facilitanti di vario tipo sono citazioni di persone rispettabili che molto spesso lasciano il tempo che trovano. Quello che non si capisce che il mondo ortodosso ha i suoi tempi, io pongo una domanda che può avere un risposta oggi ma anche in un periodo molto più lungo, però io devo aspettare una risposta, e devo fare riferimento ai grandi di una generazione. Solo così le cose possono andare avanti. Così è accaduto ad esempio per il Beit Yaakov e così accade per il resto”. Serve dunque tempo e, riconosceva su queste colonne Anna Segre, docente di un liceo a Torino, “nel mondo ebraico ortodosso negli ultimi decenni sono stati fatti grandi passi avanti per quanto riguarda il ruolo della donna (ed è questa la ragione per cui, personalmente, ritengo che non sia necessario allontanarsi dall’ortodossia per sperare di vedere un giorno riconosciuti quei diritti che oggi ci sono negati)”. Dall’altro, aggiunge Segre, meglio non usare la tradizione come scudo: “la storia dell’umanità, in tutte le tradizioni e culture, è in gran parte una storia di diseguaglianze e prevaricazioni, ma questa non è una buona ragione per mantenerle”. Le problematiche sono dunque sul tavolo e la discussione si evolve ed diretta a orecchie in grado di ascoltare e rispondere. “Tutto ciò che Sarah ti dice, ascoltalo”.Daniel Reichel