JACQUES TATI DAL MUSIC HALL PARIGINO AI FILM…UN GENIO CHE NON MUORE MAI
Avro’ avuto una trentina d’anni quando il mio amico , l’architetto Marco Albini espresse a Parigi il desiderio di avere una cassetta WHS di Tati..Gliene trovai 3 che conservo’ a lungo nella sua casa parigina. Ammirata da un genio della mimica di quel personaggio fu per me nel tempo una vera e propria ossessione. Collezionare i suoi film non bastava. Volevo sapere tutto di lui, della sua vita, della sua carriera. Proprio in quegli anni non solo il modernismo o il MovimeNto Moderno in architetture e in altre arti era piu’ che mai alla ribalta ma veniva letto e riconosciuto a pieno titolo anche nei film che Tati interpretava. La città moderna, gli open space, i luoghi di lavoro a volte incompresibili…per la progettazione. Tatì faceva da critico e da
illustratore di quei tempi…era uno spasso di risate.
L’ultima immagine dell’ultimo film di Jaques Tati (1907-1982), Parade, Arimanda a quel centauro che tanto aveva impressionato la scrittrice Colette quando, quarant’anni prima, l’aveva visto dal vivo, in un music hall parigino, l’A.B.C. Il riflettore riprende di spalle, e pian piano attenua la sua luce, un settantenne in frac e cappello a cilindro che sta arrivando alla fine della sua corsa, cavallerizzo e insieme cavallo danzanti a tempo con la musica nell’imitazione dell’haute école del maneggio di Vienna…In quell’ arco di tempo ci sono stati appena cinque film che ne hanno fatto un genio del cinema e gli hanno però avvelenato la vita, fallimenti, debiti, sequestri, perdita dei diritti cinematografici, il sogno di una totale indipendenza che trasformava ogni lavorazione in una fatica di Sisifo, ogni centesimo guadagnato reinvestito e alla fine perduto. Dopo quella ripresa, Tati svenne dietro le quinte e finì in ospedale. Un mese più tardi, a Londra, nel corso di una cena di gala, rifece, senza mettere prima al corrente nessuno, un suo vecchio sketch: il sommelier gli versò il dito regolamentare di vino nel bicchiere per l’assaggio, lui bevve, divenne rosso in volto, si mosse a disagio sulla sedia, fece per alzarsi, la sedia cadde e a ruota cadde anche lui…I commensali si alzarono spaventati, pensando a un ictus, a un infarto, corse il direttore di sala e solo allora Tati si rialzò, un largo sorriso stampato sulla faccia e il dito sulla guancia a indicare che sì, il vino era buono…
Morì nel novembre del 1982 e per il quarantennale della scomparsa Sagoma editore ha pensato bene di tradurre in italiano quella che è la più completa e la più bella delle biografie che lo riguardano, Vita e arte di Jacques Tati (traduzione di Nunziante Valoroso, prefazione di Maurizio Nichetti, 493 pagine, 28 euro), un omaggio uscito in concomitanza con la riproposizione dei suoi capolavori, Giorno di festa, Mio Zio, Playtime, Trafic, Parade, appunto, in alcuni cinema delle principali città italiane. Negli anni tutto ciò che Tati aveva perso, inghiottito dalla voragine economica causata da Playtime, è stato recuperato e restaurato, compresi i corti con cui diede inizio alla sua carriera. Un cofanetto in formato Dvd dei suoi lungometraggi consente comunue all’appassionato italiano di vederseli comodamente a casa. Non è la stessa festa di vederli al cinema, ma è comunque una festa.
Tati era il meno intellettuale dei registi e però quello che gli intellettuali prendevano più sul serio. Era amico di Marguerite Duras, di Raymond Queneau e di Boris Vian, ma non ne aveva mai letto un libro e più in generale era un pessimo lettore. Non si frequentava con gli attori del cinema, non era amico dei produttori, si teneva ben lontano dagli altri registi. Come scrive Bellos, “per farla breve, non faceva parte del mondo del cinema francese. E per una simile indipendenza, c’è sempre un prezzo da pagare”. Lo pagò tutto e senza sconti, il che però non gli impedì di essere una star mondiale e di vincere un Oscar.
All’anagrafe faceva Tatischeff, il ramo paterno era russo, quello materno italo-olandese. Il nonno, conte Dimitri Tatischeff, un ufficiale degli Ussari distaccato all’ambasciata imperiale di Parigi, si era innamorato di una ragazza francese, Rose-Anathalie Alinquant e da lei aveva avuto un figlio, George-Emmanuel, il futuro padre di Jacques. Un giorno il cavallo del conte tornò dalla sua trottata al Bois de Boulogne senza cavaliere, trovato poi morto sul ciglio di un fossato. Fosse un incidente o un assassinio mascherato da caduta da cavallo, non si sa, ma subito dopo il piccolo George-Emmanuel fu prelevato dalla sua casa parigina e portato a Mosca, come unico erede maschio del suo nobile casato. La giovane madre non si perse però d’animo: imparò il russo, trovò un lavoro da bambinaia a Mosca, rapì a sua volta il figlio, che intanto aveva compiuto otto anni e se ne tornò in Francia, isolandosi in un sobborgo di Parigi. Crescendo, George-Emmanuel decise che con la Russia non voleva avere più nulla a che fare, e tanto meno con la lingua russa: era francese, punto e basta. Tutto questo per dire che, a parte il cognome Tatischeff e “quella goffa aria sognante che le persone definiscono ‘tipicamente slava’, di russo in Tati non c’era nulla e quando gli chiedevano, come succedeva spesso, che influsso avesse avuto in lui la sua origine russa, si limitava a scrollare le spalle e passava alla domanda successiva”.
Più probabile, invece, che il dramma vissuto da suo padre durante la prima infanzia, si sia poi riflesso nell’educazione rigida imposta al figlio, il culto del lavoro e dell’efficienza, e nella difficoltà a far trapelare i propri sentimenti e sotto questo aspetto Mon oncle è un po’ la ribellione di Jacques Tati contro il dispotismo da pater familiae, la noia dell’etichetta e del decoro, la distanza sociale di classe…Mon oncle, è lo zio che tutti vorremmo avere, candido e curioso, infantile e protettivo, pieno di stupore e sempre pronto a correre con noi all’avventura…
La singolarità di Tati risalta anche nella sua origine di mimo e di acrobata, che era sì roba da music hall, di gran moda nella Francia, e non solo, fra le due guerre, ma anche del teatro d’avanguardia e della ricerca in campo teatrale. Da Etienne Decroux al suo allievo Jean-Louis Barrault, si trattava in questo caso di avanguardisti in tutti i campi. Come scrive Bellos, “erano in massima parte vegetariani, molti erano nudisti, alcuni si consideravano surrealisti ed erano tutti intellettuali socialisti. Tati non poteva essere più diverso: amante dello sport, fumatore accanito, carnivoro, artista apolitico”. C’è di più. Tati non aveva frequentato alcuna scuola, se non la sua, non era nato in una famiglia di attori, non aveva fatto apprendistato presso alcun gruppo di artisti itineranti, non era mai stato assunto da un Copeau o, appunto, da un Deroux. Come osserva ancora Bellos, “ebbe dunque grande difficoltà ad accettare il fatto che chiunque altro potesse avere il diritto di esibirsi come mimo in numeri del genere che faceva lui”.
Truffaut definì Tati “il primo cineasta marziano”, nel senso di chi aveva anticipato il mondo del Duemila e inventato nuove tecniche per sperimentarlo. Nei suoi film ci sono i “non luoghi”, dagli aeroporti agli autogrill, c’è il funzionalismo architettonico, l’ansia del gadget e la frenesia della plastica, l’alienazione della vita moderna e il trionfo dell’automobile e della vacanza tutto-compreso. C’è anche la consapevolezza che il linguaggio si avvia sempre più a divenire un rumore di sottofondo, un sonoro come un altro, dove tutti parlano, ma nessuno ascolta.
Nel suo libro Bellos avanza un significativo paragone con il Movimento situazionista, il cui libro-culto, La società dello spettacolo, di Guy Debord, uscì proprio in concomitanza con la proiezione di Playtime all’Empire Cinema di Parigi. Naturalmente, Tati non aveva mai letto Debord, né lo avrebbe mai incontrato, nonostante quest’ultimo ne fosse un gande ammiratore, e quindi resta difficile spiegare “come mai un sessantenne che stava a Saint-Germain-en-Laye, con una cultura politica e letteraria non più ricca di quella di un semplice impiegato potesse realizzare un film che echeggia e realizza molte delle idee di un intransigente guru clandestino della rivoluzione permanente”. Quello che è certo è che lì dove Debord teorizzava un crollo sociale, Tati manifestava una sua gioiosa idea di resistenza, profondamente francese, va aggiunto. “Nel mondo pianificato e organizzato che è in fase di preparazione per noi -spiegherà riassumendo il tema di Playtime- dove tutto ha lo scopo di migliorare le condizioni di lavoro e le infrastrutture, c’è sempre posto per gli individui, finché riescono a mantenere abbastanza del loro individualismo e personalità, ed ecco cosa è caratteristico dei francesi, che riescono ad adattare qualunque cosa sia disponibile ai loro bisogni e alla loro natura”…
Il filo rosso che lega Mon oncle, il film del 1958 che con la vittoria dell’Oscar ne consacrò la fama, a Parade, ovvero Il circo di Tati, con cui si chiuse la sua carriera di regista, sono i bambini, che continuano a giocare quando i “grandi” sono ormai usciti di scena. Era in fondo un modo per indicare che lo ieri potesse proseguire nel domani, limitandosi a considerare l’oggi un incidente di percorso, dove intanto però continuare a far risplendere la virtù creatrice del gioco-piacere allo stato puro, mangiare ciambelle, fingere falsi scontri automobilistici, fischiare e mandare i passanti a sbattere il naso contro i pali e i lampioni…L’essenza, in fondo, di ciò che dovrebbe essere il playtime, ovvero il tempo del divertimento. Non forzato né imposto, naturale, semplicemente. Tati era un marziano? Puo’ darsi…ma averne ancora oggi di marziani cosi colti, abili, effimeri al tempo stesso tanto da incantare grandi e piccini….