L’AMERICAN COLONY DI GERUSALEMME, UN OASI DI PACE. LA PACE LA VUOLE ANCHE GAZA E IL LIBANO E TUTTO IL MONDO CIVILE
Ci sono stata a Gerusalemme in tempi piu’ quieti, senza guerre, tranne qualche guerriglia tra musulmani, cattorici, ebrei…ortodossi….Una meraviglia di babele delle religioni..La vai Crucis, il Monte degli Ulivi ridotto a una sorta di discarica purtroppo, si salva la sua aapparenza…La bella Moschea, il Muro del Pianto, Il Santo sepolcro…La Basilica della Natività…e tanta povertà intorno. Spesso con diplomatici, giornalisti o uomini d affari ci rifigiavamo al Colony ..cosi lo chaimavamo , al di là delle mura con giardino stupendo, cenavi d incanto, scrivevi…ti sentivi al sicuro. Che cosa buffa!
L’American Colony sta sulla Nablus Road, a Gerusalemme Est, poco prima della Porta di Mendelbaum e lungo quella che fino al 1967 era la “Linea Verde” che divideva in due la città. Dalla Porta di Damasco, fra il quartiere cristiano e quello arabo, in venti minuti ci arrivi a piedi e se per il sole, il caldo, la strada dissestata e il traffico la passeggiata non è invitante, hai però come ricompensa il bel giardino profumato che all’hotel fa corona, un’oasi di freschezza e di buon gusto. Il Colony è l’albergo dei giornalisti che viaggiano in nota spese e dei diplomatici, quelli di professione e quelli che si ostinano a pensare che convivenza non faccia rima con sopraffazione. E’ meno tronfio e meno caro del King David, che già nel nome è l’albergo israeliano per eccellenza e insieme un monumento alla storia del sionismo. Nel 1946, quando ancora la Palestina era sotto mandato britannico, l’Irgun, che era un gruppo clandestino e paramilitare sionista lo fece in parte saltare in aria, 91 i morti, 46 i feriti, molti i civili in ambedue gli elenchi, ulteriore dimostrazione che il confine fra terrorismo e guerra di indipendenza e di liberazione è pressoché inesistente ed è di solito chi vince a trasformare i terroristi di ieri nei patrioti di domani. Ma questa è un’altra storia.
Tornando al Colony, tolta la piccola piscina e la piccola palestra, la struttura è più o meno rimasta la stessa rispetto a quando, nel primo Novecento, si trasformò da centro filantropico- assistenziale in albergo. Dal punto di vista architettonico è una villa ottomana a più piani, composta di due edifici fra loro collegati, una novantina le camere, un bar sotterraneo. Ciò che fa la felicità dei giornalisti e degli intellettuali in genere è la fornitissima libreria che s’affaccia sul giardino e che contiene il meglio della letteratura mediorientale disponibile. Dietro di essa c’è una lunga storia, su cui torneremo, ma questo bookshop, così come le botteghe d’antiquariato e di gioielli che fronteggiano l’ingresso e che negli anni hanno chiuso riaperto, cambiato proprietari, fanno parte di quel lusso un po’ glamour che è il fascino stesso del Colony: non troppo grande, non troppo accessoriato, rigoroso nella conduzione, sufficientemente appartato per sfuggire al turismo di massa, non così caro da risultare inavvicinabile a un comune mortale (attualmente una camera standard costa intorno ai 300 euro).
Sul Colony e la sua storia sono appena usciti due libri, complementari fra loro e scritti da due inviati italiani di lungo corso. Il primo si intitola Il giardino e la cenere, di Alberto Stabile (Sellerio, 233 pagine, 15 euro); il secondo Jerusalem Suite, di Francesco Battistini (Neri Pozza, 428 pagine, 22 euro). Se Stabile preferisce un racconto dove le sue memorie di corrispondente si mischiano con le frequentazioni, le amicizie e persino gli amori vissuti all’ombra del Colony, Battistini mischia maggiormente la sua esperienza di cronista di quello che è ormai un conflitto infinito, con il piglio e la passione dello storico perché poi, come egli stesso scrive, “il Colony ha visto ventun guerre, trenta piani di pace, ventidue accordi, ottocento risoluzioni Onu. L’autobiografia di tre religioni, due popoli, una città”. Letti insieme si rivelano un contributo importante sia sul mestiere giornalistico in quanto tale, sia su una città, Gerusalemme, che di quel “conflitto infinito” è vittima e insieme carnefice, per le implicazioni etiche e politiche che la sua completa annessione da parte israeliana ha finito con il comportare L’aver scelto il Colony come lugo simbolo è del resto da parte di entrambi il modo più intelligente per viaggiare a ritroso nel tempo, verificando come nel corso ormai di più di un secolo i margini di una possibile convivenza si siano fatti sempre più labili sino poi a scomparire, e come di quella convivenza, per la sua storia, le sue scelte, il suo precario equilibrio il Colony continui a rimanere una piccola oasi e insieme una bandiera di civiltà.
Il nome e la fondazione dell’American Colony, rimanda d’altra parte a un’epoca, la fine dell’Ottocento, in cui, come scrive Battistini, per un viaggiatore d’oltreoceano il cammino verso la Palestina equivaleva “al Grand Tour che gli aristocratici si concedevano nell’Italia del Settecemto, ai viaggi in India de nostri pellegrini new-age, alle moderne meditazioni occidentali negli ashram di qualche guru”.
Horatio Spafford è uno di quei viaggiatori d’oltreoceano. Avvocato, uomo di fede, tra i fondatori della chiesa Presbiteriana di Chicago, quando nel 1881 decide di trasferirsi in Terra santa e fondarvi una comunità di preghiera e di assistenza ai più poveri e ai più bisognosi, lo fa perché la sua vita ha appena subito uno sconquasso incredibile. Il “grande incendio” di Chicago gli ha pressoché bruciato il patrimonio, il naufragio del transatlantico Ville-du-Havre dove la moglie Anna e le loro quattro figlie viaggiavano alla volta dell’Europa, ha visto salvarsi solo la prima. Per entrambi è come se il Signore abbia voluto metterli alla prova e, come dirà, Anna: “Ho elevato la mia anima a Dio tra il dolore e la disperazione, e umilmente ho deciso di dedicare la mia esistenza al suo servizio”. La nascita di un’altra bambina, Bertha, la morte del marito, l‘incontro con la Chiesa evangelica svedese, scandiscono le successive tappe di quella prima comunità e mentre l’Ottocento si chiude l’American Colony allinea un ospedale, una mensa, una scuola e l’albergo-locanda ricavato in quella villa ottomana che da allora in poi sarà la sua sede. Quando nel 1917 Gerusalemme si arrende alle truppe inglesi del generale Allenby, la bandiera bianca sventolata dal suo sindaco-effendi è ricavata da un lenzuolo del Colony Hotel ed è al Colony Hotel che poco tempo dopo si incroceranno Lawrence d’Arabia, Gertrude Belle, Winston Churchill…
Gli anni degli Spafford, nota Alberto Stabile, coincidono più o meno con la Prima Aliyah, ovvero l’ondata di emigrazione ebrea dall’impero russo, quando in Palestina ci sono all’incirca 400mila arabi, 40mila cristiani, 14 mila ebrei. Il movimento sionista fondato da Theodor Herzl nel 1897, accentua il fenomeno migratorio, dandogli un carattere nazionalista, e alla vigilia della dichiarazione Balfour del 1917 con cui le potenze occidentali, Gran Bretagna in testa, stabiliscono “un focolare ebraico” in Palestina, “la popolazione è coì suddivisa: 670mila arabi, 81mila cristiani, 60mila ebrei. A metà degli anni Trenta, gli ebrei saranno un terzo della popolazione. Nel 1939, quasi la metà. La coabitazione, apparsa sin dall’inizio molto difficile, con l’andare del tempo si rivelerà impossibile”.
I successivi disastri combinati dagli inglesi in Palestina e simboleggiati dai tre “libri bianchi” da loro stilati fra le due guerre, sono ben raccontati da Battistini, sullo sfondo di un Colony che riesce a mantenere una sua neutralità mentre la Palestina brucia; così come è ben rievocato il ruolo un po’ grottesco di Tony Blair, all’indomani della Seconda Intifada del 2007, nelle vesti di “inviato di pace” del cosiddetto Quartetto (Onu, Unione europea, Stati Uniti e Russia): “Tante chiacchiere, zero risultati”. Occupa l’intero quarto piano del Colony e quando lui e il suo staff se ne andranno lasceranno “un conto di milioni di dollari pagati dalla comunità internazionale. Beati, certi costruttori di pace”. Eravamo alla ricerca di libri e di video…alla fine la nostra valigia ne era piena. Che bello poterci andare adesso! Mentre fu pessima l’impressione che ebbi da Tel Aviv, una parte ricca ma non elegante e le solite strade piene di commercianti e donno grasse e brutte dalal pelle butterata che aspettavano un mezzo di trasporto per andare a casa. Non era facile trovare alberghi decenti, le strade erano sporche e mal odoranti, “per fortuna è la capitale…”, si diceva..I fili della luce univano gli edifici e vi si trovava sopra pantaloni, una scarpa legata, corrente rubata dalla popolazione in povertà. I ricchi ebrei se ne stanno in Francia, America e per anni persino a Mosca per i loro affari. Ora se ne trovano ancora ad Anversa, li arrivano le navi con i piu’ bei diamanti del mondo da tagliare…tappeti. Ma una volta arrivati al confine di Gaza non ci fecero passare perche’ gioranlisti ..era scritto sul visto..non lo volevano ne i palestinesi ne gli Israeliani. La conferenza stampa all Ambasciata Svizzera era tutto un programma..e la chiamavano Ambasciata e pure Svizzera…suonava male. Ora che da molto tempo l’invasione da parte di B. Netanyahu è andata oltre alla cattura a Gaza e in Palestina e persino in Libano a caccia degli hezbollah bomnardando e facendo solo morti e macerie…Questa tregua breve non è vero che è rispettata, le maggiori testate e Network occidentali prendono per buono tutto quello che passa Israele…Ieri una bella manifestazione a Milano con tanto di concerto in cui i sono esibite orchestre e musicisti ecantanti di questa terra nello stupendo edificio degli anni Trenta della Camera del lavoro a Milano, con collegamenti con giornalisti, scrittori, artistiti libanesi per una seria raccolta di fondi per i sopravvissuti a questo dramma. Si parlava anche della follia di onnipotenza di un Capo di Stato che usando bormbo fornite anche dagli americani e ogni mezzo bellico ha iniziato a inserire insediamenti in Palestina e sta tentando anche in Libano. La sua follia che nessuno ferma si è spinta a bombardare i pozzi di petrolio dello Yemen e a sfidare l’Iran e la maggior parte delel nazioni arabe. “Libano, libero” e ricostruito e in pace, terra stupenda dei Cedri e dei limoni, paradiso un tempo di mondanità, re e regine, attori e attrici, politici di tutto il pianeta.
La libreria del Colony, ne abbiamo parlato all’inizio, ma la sua storia è esemplare per capire come nel tempo chi vince decide di fare sempre più a meno dello sconfitto che si ostina a stargli fra i piedi. Il suo futuro proprietario è un giovane palestinese emigrato negli Stati Uniti dopo la Guerra dei sei giorni del 1967. Non ha voluto prendere la cittadinanza israeliana, che Israele ha voluto per la Gerusalemme araba ormai da lei occupata, ma ha scelto la formula della “residenza permanente”, documento che gli permette di andare e venire dall’estero, ma che ogni tre mesi va rinnovato. Decide di tornare a casa dopo gli accordi di Oslo del 1993, sanciti dalla storica stretta di mano fra Arafat e Begin, ed è allora che apre il suo book shop. Dopo alcuni anni però una nuova legge stabilisce che chi se n’è andato un tempo, adesso non può più tornare e nemmeno risiedere…”Sono nato a Gerusalemme. Ci abitano i miei. Ci vivevo prima che arrivassero a occuparla loro, quelli che adesso mi dicono di andarmene”…Fa ricorsi, campagne stampa, si mobilitano per lui scrittori e politici: alla fine vince, ma è talmente disgustato dall’idea di essere comunque uno straniero in patria che vende tutto e se ne va…Le manifestazioni erano all’ordine del giorno e spesso i membri delle varie religioni si schernivano.
Al Colony, i dipendenti sono un mosaico di fedi, musulmani, cristiani, ebrei, gli appalti per i lavori vengono suddivisi fra ebrei e palestinesi, è un continuo equilibrio e insieme un puzzle fatto di faticosi incastri. Per certi versi è un miracolo, l’unico oggi possibile in Terra santa. Un’eccellenza ma non scordiamoci confortevole palazzo dove ci ha accolto a dormire la seconda notte in Gerusalemme a noi giornalisti, anche perchè mi ero intestardita e cosi’ i francescani e Padre Raffaello in particolare ci ha fatto dimenticare la fetenzia del primo rifugio. Il Colony è venuto dopo, appena si sono liberate due stanze..I prezzi erano alti anche per il ristorante sia interno che quello esterno, ma la sua biblioteca ci è stata d’aiuto per comprendere meglio la situazione politica che si stava creando e alcuni elementi del passato e la storia sommessa di questa antichissima città…dove Gesu Cristo, che piaccia o no, faceva da star….