L’ULTIMO SHOGUN….E UN BEL LIBRO DI EINAUDI CHE RACCONTA COME IL GAIPPONE HA DOVUTO USCIRE DAL SUO ISOLAMENTO ED ENTRARE NELLA MODERNITA’
A metà Ottocento, con l’arrivo della flotta americana dell’ammiraglio Perry nella baia di Endo, l’antico nome di Tokyo, il Giappone fu costretto a uscire dal suo isolamento e a confrontarsi con la modernità. Quella che fino ad allora era stata una società feudale (con un imperatore nominalmente al suo vertice, ma senza una reale autorità, uno shogun a capo del governo e i daymo, ovvero i grandi feudatari, quali governatori delle varie regioni, l’uno e gli altri effettivi detentori del potere), andò incontro a uno sconvolgimento politico economico e sociale. Ne sarebbe uscita a fine secolo, con la vittoriosa guerra contro la Russia e la riorganizzazione dell’impero, non più parcellizzato in tante più o meno autonome signorie, ma centralizzato e militarmente quanto univocamente votato alla grandezza nazionale, sancita dalla natura divina del suo comandante in capo, ovvero l’imperatore.
L’ultimo shogun, di Shiba Ryotaro (Einaudi, traduzione di Maria Teresa Orsi, 281 pagine, 20 euro), racconta proprio gli anni della crisi, incarnata nella figura di Tokugawa Yoshinobu, che, come dice il titolo, chiuse politicamente un’era, quella, appunto, dello shogunato, e, senza volerlo, aprì quella del “regno illuminato”, il cosiddetto periodo Meiji, con il nuovo imperatore Mutsuhito.
Va detto che nella sua breve attività di shogun, poco più di un anno, dal 1866 al 1867, Yoshinobu si trovò di fronte a una serie di gravissimi problemi. L’arrivo della flotta Usa aveva portato con sé non solo l’ingerenza diplomatico-economica d’oltreoceano, ma aveva creato una spaccatura nella corte imperiale fra filo americani, favorevoli a una occidentalizzazione del Paese, e antiamericani, custodi più o meno avveduti della tradizione. Questa spaccatura si era riverberata sui daymo, i grandi feudatari, ed aveva dato vita a una situazione di guerra civile più o meno mascherata in cui l’essere pro o contro l’ingerenza americana aveva in realtà più l’aspetto di un regolamento interno dei conti e di un rafforzamento dei singoli governatorati.
In quell’anno Yoshinobu vide tre dei suoi uomini di fiducia assassinati e si rese conto di essere un vaso di coccio fra tanti e contrapposti vasi di ferro. Alla fine scelse volontariamente di farsi da parte, ma la sua uscita di scena significò anche la scomparsa dello shogunato in quanto tale.
Va anche detto che Yoshinobu non apparteneva per nascita al ramo shogun, quello che, per virtù ereditaria, era chiamato a esercitare il ruolo e il potere politico a esso inerente. Lo era diventato in quanto pupillo del dodicesimo shogun di casa Tokugawa, Ieyoshi, che lo aveva fatto adottare da un ramo della sua famiglia, aprendogli così le porte della carriera politica. Proprio Ieyoshi era stato lo shogun che aveva visto le navi da guerra dell’ammiraglio Perry alla fonda nella baia imperiale e quella vista lo aveva messo in un tale stato di prostrazione da condurlo di lì a poco alla morte. In mancanza di una discendenza diretta, lo shogunato era stato allora affidato a un reggente, Naosuke, il cui acceso filoamericanismo era stato considerato un’offesa alla memoria di Ieyoshi, che appunto di antiamericanismo era morto, nonché un pericolo per i circoli conservatori giapponesi. Così, la nomina di Yoshinobu a shogun fu soprattutto un calcolo politico, calcolo che si rivelò sbagliato sul momento, ma fu proprio quel fallimento che poi, nel giro di un ventennio, diede vita alla nascita del Giappone moderno e di una nuova volontà di potenza, destinata, purtroppo per il suo popolo, a finire nel rogo atomico di Hiroshima e Nagasaki. Ma questa, come diceva Kipling, è un’altra storia.