CONVEGNO DELLA FONDAZIONE "LE LUCI SUL MARE". "TRATTARE SENZA MALTRATTARE"
Dov’è il confine tra coazione legittima, l’uso della forza per esigenze di cura, e quella illegittima, ovvero la violenza sul malato? Da Io ti salverò al Corridoio della paura, da Splendore nell’erba a Qualcuno volò sul nido del cuculo, dalla Fossa dei serpenti alla Pecora nera e a Vincere, il cinema ha rappresentato le “istituzioni totali” (manicomi, ospedali, carceri…) attraverso le sofferenze che vi si concentrano, presentandole come non sempre necessarie, non sempre inevitabili.
In Anima persa uno psichiatra passato al cinema, Dino Risi, raccontava il disagio mentale di un singolo in tempo di pace, fino all’auto-reclusione; più tardi, in Scemo di guerra (ispirato dal romanzo Il deserto della Libia, opera di un altro psichiatra, Mario Tobino) lo ampliava caso di follia singola nella follia collettiva del fronte.
Tutti questi film solo episodicamente sono stati grandi incassi, perché il pubblico è attratto dalla devianza quando è criminale, da assassino seriale, come nel Silenzio degli innocenti e nei film più di orrore che di terrore firmati da Dario Argento. Ciò dice quando sia arduo concentrarsi su vicende complesse e dolenti quando non sono estreme, quando cioè non generano il “mostro”.
Negli ultimi quarant’anni anni in Italia le strutture di cura hanno cambiato nome, spesso anche sostanza. Ma introdurre l’anti-psichiatria nella psichiatria può aver evitato che la cura si riducesse a una pillola e a una camicia di forza e che le strutture somigliassero più a un ospedale che a un carcere. Ma le malattie mentali, le tare ereditarie, gli incidenti genetici restano. E poi, se certi farmaci arginano o inibiscono gli scatti di furia dei malati, non evitano le situazioni limite, che provochino, nel personale addetto, reazioni oltre il consentito. Ma dove sta il limite del consentito?
La microconflittualità urbana, che ormai pervade le città, può lasciare immune chi indossa un camice? Ricevere un pugno o uno sputo non umilia meno se lo si riceve da un irresponsabile al quale si è addetti per lavoro.
Come evitare, dunque, in vaste collettività che i problemi venuti dall’esterno si sommino a quelli interni? E – quando qualcosa di brutto vi accade – come evitare che l’inchiesta diventi una caccia al mostro? In materia l’informazione ha le sue responsabilità. Nel Corridoio della paura, per esempio, un giornalista si fingeva pazzo per farsi ricoverare, trovando il materiale per scrivere un libro; ma la degenza lo alterava realmente…
Di questo attrito tra buone intenzioni e doloroso ostacoli s’è parlato nel recente convegno “Aggressività tra approcci di cura e dignità della persona”, svoltosi nel centro terapeutico “Luce sul mare” di Igea Marina presieduto da Massimo Marchini. Ne hanno discusso Alain Goussot, docente di pedagogia speciale all’Università di Bologna; Gloria Samory, psichiatra; Aldo Terracciano e Silvia Bartoli, psicologi, Rossella Talia, presidente Tribunale di Rimini; Maurizio Cabona, giornalista. Moderava Leandro Jacobucci.
Ad ascoltare c’era un pubblico ampio e variamente coinvolto: familiari di malati, ma anche insegnanti, sempre più facilmente confrontati con situazioni limite nella loro professione, quindi esposti al rischio o di perdere l’autorità o di infrangere la legge. A differenza di quanto accade nella maggioranza dei dibattiti tv, in quello di Igea Marina ognuno è stato competente e cauto. Ugual garbo ha accomunato il tentativo di definire situazioni complesse. Chi ha scelto professioni così delicate – è stato notato – ha una forte motivazione: la sua ricompensa sta nel farla al meglio, più che nel trarne guadagno. Chi invece si occupa saltuariamente di chi cura e di chi soffre, come la stampa, non sempre ha il tempo per riflettere e conoscenza di causa. E poi chi fa giornali, radio o tv ha, come primo problema, non la misericordia o anche solo l’accuratezza. L’omissione dei nomi limita l’informazione, ma evita anche errori peggiori della mancata informazione.