LA MIA CAPRI E L’ULTIMO LIBRO DEDICATO A MALAPARTE a 60 DALLA SUA SCOMPARSA. NON FACCIAMO MORIRE QUESTO GIOIELLO DI ISOLA

Pochi giorni a Capri a inizio stagione è stato un tuffo nel blu e nella storia..nonchè nei ricordi. Peccato che la via Krupp, costruito dall’industriale dell’acciaio sia franata e il Comune dice di non avere soldi per consolidare e mettere in sicurezza la montagna.Così ci troviamo di fronte a una Capri spezzata e la seconda discesa a mare tortuosa ma un vero colpo di ingegneria ed arte sia scomparsa. A Marina Piccola si va a piedi tra scalinata e case o per la strada piena di auto, bus e moto. Ha retto perché dalla parte opposta l’altra bella stradina lunga ripida e serpeggiante che va ai Faragioni e da Luigi…e la La Fontanellina. Nulla sembra cambiato, dal Quisisana, grande albergo dove sono passati gli uomini più importanti e le donne più famose della storia (ex sanatorio) alle belle spiagge della Torre Saracena fino ai vicoli, i prati, i boschi, la Casa Editrice la Conchiglia, la Capannina, la Limonaia…Che bello quando sono andata con i miei ragazzi anche quattro anni fa (spero che ritornino almeno per pochi giorni anche in questo mio secondo passaggio su quest’isola un tempo di contadini di pecorai, dove tutti vogliono vemdere la casa e nessuno riesce a comprarla. Un vero mistero!

L’ultimo libro sulla Casa di Malaparte realizzata dall’architetto Adalberto Libera davanti ai Faraglioni in coloro rosso scuro con una grande terrazza ovale che guarda il mare e una scalinata che scende in ordine degradante dal tetto fanno di questo luogo uno dei più magici di Capri…in ordine di tempo è “Le Malaparte impossibili” (Lettera ventidue, 207n pagine, 25 euro), in cui Cherubino Gambardella utilizza la dimora malapartiana di Capo Massullo come fonte di ispirazione e trasformazione di altri progetti, la sua manipolazione e insieme la sua trasposizione immaginaria, una sorta di “libro verosimile sulla vita sognata di una delle più famose case del mondo”. E’ l’approdo finale di un processo iniziato una trentina d’anni fa, quando libri fotografici, A House like me, di Michael Mc Donough, e testi critici, Casa Malaparte, di Marida Talamona, Casa Malaparte. Capri, di Gianni Pettena, cominciarono a raccontare quello che un po’ per pigrizia, un po’ per preconcetto, un po’ per difesa corporativa, gli studiosi di architettura avevano fino ad allora celato: dietro quella costruzione c’era soltanto Malaparte, coadiuvato da un capomastro abile e capace quale Adolfo Amitrano.

“Vivo in un’isola, in una casa triste, dura, severa che mi sono costruita da me, solitaria sopra uno scoglio a picco sul mare: una casa che è lo spettro, l’immagine segreta della prigione, l’immagine della mia nostalgia” aveva scritto nella prefazione di Fughe in prigione. Non si trattava solo della reminiscenza della galera e del confino, il dramma di una libertà perduta, poi riacquistata, comunque minacciata.  Quella nostalgia era qualcosa di più, investiva ciò che aveva creduto e per cui si era battuto. Come “un uccello che avesse ingoiato la propria gabbia” la casa testimoniava la sconfitta di un’idea e ciononostante la sua fedele riaffermazione. Oggi, a sessant’anni dalla sua morte, resta come il suo libro-testamento inciso sulla pietra.

Nella sua Guida inutile di Capri, Edwin Cerio consiglia ironicamente “il paesaggio che si scopre dopo Capo Malaparte, dove abita il signor Massullo”. L’identificazione fra lo scrittore e la sua creazione fu totale, fin dall’inizio, ma i capresi vissero sempre l’uno e l’altra come un corpo estraneo. Comprato il terreno nel 1938, alla fine del 1942 la casa è come la vediamo adesso: solo il colore è diverso, bianco dopo un primo esperimento di rosso. Ma il rosso ritorna e si impone, definitivamente, a partire dal 1945. Fra i motivi di questa scelta c’è sicuramente la suggestione di un brano del Breviario di Capri, di Amedeo Maiuri, da Malaparte letto e più volte ricordato nelle conversazioni: “Chi sceglie per il proprio sepolcro la vetta eccelsa e scoscesa di uno scoglio, non pensa ad occultarvi una umile tomba a fossa, ma vi erige a perenne memoria, in vista del mare e dei navigli, una tomba cospicua, un mausoleo. Tale mi apparve, vari anni orsono, su di un isolotto roccioso della costa anatolica, una piramide fiammante di rosso mattone, ignoto, grandioso mausoleo romano attanagliato e saldato per l’eternità al basamento ferrigno dello scoglio”. Nel suo libro, Gambardella suggerisce anche un modello greco in gesso, Casa Kryakides, dell’architetto Georgios Kontoleon, forse visto da Malaparte ad Atene negli anni Trenta, e di stupefacente rassomiglianza.

Quello che è certo è che il colore rosso è un rimando cromatico a un’edilizia pubblica e privata che incarna una dimensione estetica e ideologica: è il rosso cupo delle case del Fascio e del Foro Mussolini, che a sua volta è il rosso cupo della romanità, delle ville di Pompei, degli affreschi  e delle decorazioni, è il color terra di Siena dell’Italia barbara e premoderna, ovvero l’atra modernità, il tentativo di adattare alla tradizione il linguaggio giusto che non la neghi né la ripeta stancamente. Scegliendo quella roccia e costruendo quella casa, Malaparte elabora visivamente ciò che era andato esponendo in vent’anni d’impegno letterario, il richiamo a valori forti e ancestrali, il rifiuto delle mode straniere, la ricerca di una terza via fra liberalismo e marxismo, la rivoluzione non come restaurazione o tabula rasa, ma recupero di una visione del mondo e sua attuazione, il sogno di un fascismo immenso e rosso che sarebbe potuto essere e non fu…”Il ‘mio’ fascismo me lo son creato io” scrive a Gobetti nel 1924,  un po’ il successivo  assunto del Longanesi dell’Italiano: “Il fascismo non è bello per quello che ha in sé, ma per quello che promette”. Un giorno bisognerà scrivere una storia del rapporto fra il fascismo e alcuni intellettuali, Malaparte stesso. Ansaldo, Longanesi, alla luce dello sciupio delle intelligenze più che del loro utilizzo, il passaggio dall’adesione al frondismo e poi l’abbandono, non nell’ottica greve del tornaconto o morale del tradimento, ma in quello di chi si vede ridurre gli spazi d’azione e di intervento, di chi è più avanti rispetto all’armatura ideologica e burocratica che gli si para di fronte, di chi si accorge di sprecare il proprio talento nella difesa di un sistema che non lo rappresenta e in molti casi lo mortifica. Di chi alla fine si rende conto che il suo fascismo è più fecondo di quello che, istituzionalizzandosi, si è inaridito.

“Melanconica, dura, severa. Come me”. L’autoritratto di sangue e di pietra che Malaparte declina superati i quarant’anni potrebbe far sorridere. Nessuno di quegli aggettivi si addice, a prima vista, alla sua vita pubblica che fu fragorosa, sempre sopra le righe, istrionica. A volte la bellezza e l’intelligenza sono una maledizione, obbligano a portare in superficie quello che avresti preferito restasse in profondità. A uno scrittore non si chiede la prestanza fisica, un intellettuale non si misura in termini estetici. Nell’Italia dei letterati da caffè e dei professori a stipendio, dei romanzieri in camere d’affitto, quelli come lui erano una minoranza e, tolto d’Annunzio, la cui “vita inimitabile” è però un ultimo fuoco dell’Ottocento, li ritrovavi nella letteratura popolare, i Da Verona, i Pitigrilli, dalla “classe dei colti” invidiati, ma disprezzati, non considerati. Il divismo malapartiano cui lo condannava il suo fisico e la sua baldanza aveva in sé l’elemento forte di un pensiero, il nucleo di un’ideologia e risiedeva lì la sua pericolosità. Non era uno scrittore per sartine, una firma per romanzi d’appendice con la faccia da attore dei telefoni bianchi… Che se ne dica, Adalberto Libera ne ha disegnato i caratteri e le poporzioni..la casa non  affatto triste, anzi…averla!!!!


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