MONDO CAINE. I FAVOLOSI ANNI SESSANTA AL CENTRO DI “MY GENERATION”. IL DOCUFILM DIRETTO DA DAVID BATTY E VOLUTO E PENSATO DA MICHAEL CAINE.

my-generation-venezia74“Mondo Caine” è giusto titolare così questo articolo, questo blog…”My generation” i favolosi anni Sessanta (e un pezzo di anni Settanta) visti dagli occhi di un giovane Michael Caine. Prese quel nome perché per non perdere un primo lavoro in un film si dovette inventare un cognome diverso dal suo e allora guardò un cartellone di un film che aveva davanti agli occhi e decise di chiamarsi così. Maurice Joseph Micklewhite è nato a Rotherhithe (Londra) nel 1933 (il 14 marzo). E’ alto 1 metro e 84 centimetri.  La sua la generazione che nacque creando una cultura pop. Tutto doveva cambiare dopo la guerra, ma proprio tutto e i giovani dovevano sentirsi giovani e non parte integrante di un vecchio sistema che aveva per lo più fallito. “Per la prima volta i giovani della classe operaia lottavano per se stesso, siamo qui…questa società è anche nostra e non vogliamo andarcene! La mia famiglia era umile, mia madre faceva la domestica e lavorava sodo, mio padre lavorava scaricando casse di pesce. A me quell’odore faceva venire nausea. Amavo recitare dall’età di 10 anni. Poi tentai un po’ di tutto anche piccoli corsi di recitazione, qualche teatro scalcinato..dipo qualche comparsata e particina mi scainecelsero pCaine cartelloneimageserché ero alto in un film dove facevo il protagonista faceva un ufficiale inglese (Zulu’) e da lì mai avrei creduto, lo giuro, di avere successo nella vita”. Il resto venen da sé…

“Crescendo a Londra, subito dopo la guerra e poi negli anni Cinquanta, io e i miei amici ci eravamo abituati a sentire i nostri genitori parlare dei bei vecchi tempi” dice Michael Caine: “Ci chiedevamo cosa ci fosse di così bello in quei giorni…” Con il cibo e il riscaldamento razionati, l’impero svanito, la grandezza passata ormai un ricordo, l’Inghilterra era allora un Paese in bianco e nero dove la classe dirigente faceva finta che non fosse cambiato nulla, per non dover ammettere che invece era cambiato tutto. La crisi di Suez del 1956, ultimo tentativo di riportare indietro le lancette della storia, fu da un lato la campana a morto per una certa idea della nazione, del suo ruolo, delle sue ambizioni e dall’altro l’epifania di ciò che ne avrebbe preso il posto. “Semplicemente, per la prima volta nella sua storia –dice ancora Caine- la giovane classe operaia disse: ‘Siamo qui, questa è la nostra società e non ce ne andremo! Prima, quelli con il mio accento cockney, non poscaine e moglieuntitledh, non upper class, venivano guardati con il sorriso distratto che si riserva ai meno fortunati: eravamo come delle figurine di contorno e imcaine micchaeluntitledmobili di un arredo scelto dagli altri…. Invece cominciammo a muoverci e, soprattutto, cominciammo a parlare. Era una lingua nuova, fresca, vivace. Ci parlavamo faccia a faccia e questo generava creatività, perché ci si incontrava, si scambiavano idee”.

My Generation, il documentario fuori concorso di David Batty, che ha appunto Caine come voce narrante e filo conduttore è il racconto visivo di quegli anni Sessanta, ribelli e pieni di speranza, che cambiarono in profondità la società britannica e diedero il là a quello che poi sarebbe divenuto il decennio più turbolento della seconda metà del secolo. “Nel 1960 avevo 27 anni, quando feci Alfie avevo superato la trentina. Mia madre faceva la donna delle pulizie, mio padre il pescivendolo. Volevo qualcosa di più e di meglio. A scuola ci insegnavano a rispettare i nostri superiori. Non ho mai capito chi dovessero essere. Non ho mai visto uno dei miei superiori. Ho visto un sacco di eguali, ma non ho mai visto superiori. Presi il mio nome d’arte dal manifesto di un film in Leicester Square, dove c’era un attore che amavo molto, Humprey Bogart: L’ammutinamento del Caine, era il titolo. Se avessi guardato a sinistra invece che a destra della piazza, oggi mi chiamerei La carica dei 101…”

Sfondo grandioso per qualsiasi film, la Londra degli anni Sessanta allinea nomi come i Beatles, i Rolling Stones, gli Whoo, Mary Quant, Jean Shrimpton, Twiggy, Vidal Sassoon, David Hockney, e quindi il beat e il rock, le modelle, le minigonne e la pop art, Carnaby Street, King Road e i ritratti fotografici. David Bailey, che è un ragazzo dislessico cresciuto nell’East End, con la City nella mente e la working class nella pelle, trova proprio in Jean Shrimpton, gambe esageratamente lunghe che ricordano Bambi, un misto di sensualità e pudore, la sua fonte di ispirazione rispetto alle indossatrici patinate ancora in auge: “Fino ad allora, un fotografo di moda era alto, magro e omosessuale…Io ero differente: piccolo, tozzo ed eterosessuale”.

Cantore per immagini della “popocrazy”, ovvero la strada che invadeva gli studios, una nuova forma di libertà nei movimenti e nei rapporti, a Bailey, ai suoi scatti si deve the Birth of the Cool, la nascita di un nuovo spirito del tempo. Il giovane Mick Jagger del 1964, giacca di tweed e colletto della camicia a due bottoni; Jean Birkin e i suoi seni da bambina; Michael Caine, appunto, e la sua classe senza classe mentre si prepara a impersonare l’anti-Bond, l’agente Palmer della Pratica Ipcress, occhialuto, niente champagne e tutto libri…

Modelli, cantanti, stilisti, affaristi, malavitosi e tossicodipendenti, la Swinging London di “My Generation” è un concentrato di sfacciataggine e di indifferenza, di freddezza e di naturalezza, tutti significati che la parola cool incarna, che al termine cool fanno riferimento. La fine di un’epoca si intravvede nella scelta di chi è chiamata a impersonarla, Penelope Tree, la modella diciassettenne figlia di un banchiere e di un’ambasciatrice delle Nazioni unite che sul finire del decennio diverrà la nuova musa di Bailey. Con il suo volto, l’eccesso dei suoi lineamenti, un che di febbrile e di grottescamente infantile, spiega cosa si sta preparando dietro l’angolo. “Penelope si appassionava alle cause più estreme, il Black Power, per esempio. La nostra casa divenne un luogo di incontri per gente che fumava la mia marijuana, beveva il mio brandy e poi mi accusava di essere capitalista” ha riassunto Bailey.

Caine è da anni Sir Michael. Non ricorda con rabbia, guarda avanti con speranza e non si piange addosso. “Preferisco essere povero a casa mia, piuttosto che ricco, ma comandato da altri” dice a proposito della Brexit. E anche questo è cool.

Passeggiano sola o con mia figlia a Carnaby Street senti ancora quella musica, quel gran far festa, quel voler essere strani ad ogni costo. Chissà se Michael Caine ha ancora il suo ristorante vicino alla Tate Gallery quella ingrandita dall’architetto Stearling? In tal caso prenoterei subito.

 


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