I DUE STENDARDI DI LUCIEN REBATET. EDIZIONI SETTECOLORI . LA SALVEZZA E’ NELL’ARTE

Nella prefazione “La salvezza e’ nell’arte” scritta da Stenio Solinas per la nuova edizione del volume di Rebatet si chiede….Che cos’è I due stendardi, di Lucien Rebatet? È una di quelle grandi navi corsare, ben terzarolate per reggere meglio il vento, che solcano febbrili gli oceani letterari, la stiva piena di tesori sanguinosamente conquistati, la ciurma e il suo capitano pieni delle cicatrici di mille arrembaggi vittoriosi, di mille pericoli scampati. Nei momenti di bonaccia, si fa il racconto delle proprie vite, odi e amori, passioni profane e istanze religiose, gusti e disgusti, e si mette a giorno il bottino: c’è il romanzo sentimentale e quello psicologico, il feuilleton d’avventura e lo stream of consciousness, il narratore onnisciente e la terza persona, il diario intimo e lo scambio epistolare, la purezza della lingua, l’esplosione dell’argot…

Tutto è inventariato, eppure sapientemente mischiato e al termine della giornata il suo capitano può dire di sé, della sua nave, del suo equipaggio, delle sue ricchezze accumulate, quello che Céline diceva del Voyageaubout de la nuit: «C’è pane per un secolo intero di letteratura».

Scritto negli anni Quaranta del Novecento, ambientato nei primi anni Venti, I due stendardi uscì quando fra nouveauroman, strutturalismo ed esistenzialismo si andava celebrando, per quanto un po’ troppo frettolosamente, la morte del romanzo tradizionale, la morte del cosiddetto «romanzo borghese». Classe 1903, Rebatet era uno stendhaliano nato in ritardo rispetto al proprio tempo, un ammiratore fervente di Proust e insieme un vero figlio della modernità novecentesca: dei suoi «ismi», futurismo, dadaismo, surrealismo, delle sue sperimentazioni d’avanguardia nella musica come nelle altre arti, pittoriche, cinematografiche… Tuttoquesto fa di I due stendardi un romanzo monstre, nel suo essere un romanzo epocale, il recupero intelligente della grande tradizione, Balzac e Flaubert, Dostoevskij e Tolstoi, fatto da chi sa ciò che è avvenuto dopo e quindi ne conosce i vicoli sbarrati e le nuove strade aperte, l’impossibilità di rifarsi strettamente a un genere, possedendo però tutti gli strumenti per farlo brillare a nuovo, eguale e però completamente diverso.

Così, la storia di un triangolo sentimentale, due ventenni, Michel e Régis, innamorati della stessa ragazza, Anne-Marie, sfugge a ogni trappola romantico-ottocentesca o sperimentalmente esessualmente novecentesca perché le costruisce intorno un fondale dove vanno in scena i grandi temi dello spirito, dell’anima, delle visioni del mondo.

Michel, parigino d’elezione, è un wagneriano convinto e un anarchico cultore di Nietzsche; Régis, provinciale, lionese, compositore di suo, aspira alla santità, è un seguace di Sant’Ignazio di Loyola, vuole entrare nei gesuiti; Anne-Marie è una diciottenne seducente e non banale, che vede nella spiritualità e nella castità sofferta di quest’ultimo la via d’uscita da una carnalità che, appena adolescente, ha già conosciuto, ma che inclina più verso il suo stesso sesso che verso quello maschile. Il risultato, è una sorta di trattato sulle passioni: quanta razionalità esiste dietro scelte apparentemente irrazionali, come e perché si ama, fino a che punto è un sentimento e non un’ossessione, come lo si sublima e che cosa si è disposti a sacrificargli, come lo si può sporcare e perdere…

A corona di tutto c’è la giovinezza, che è poi il vero, grande tema del romanzo, l’età delle negazioni assolute e delle affermazioni sovrane, dei grandi giuramenti e delle amicizie eterne, l’unica dove nessuna grande impresa è ritenuta impossibile, nessuna umiliazione è irriscattabile, nessun pianto è disonorevole, si sogna a occhi aperti, si crede sempre e comunque che il destino ci appartenga, si è disposti a morire pur di non tradire la parola data, la propria immagine, la propria donna, il proprio credo, senza bene capire che in realtà è un’illusione: quando lo si comprenderà è troppo tardi, si è diventati adulti, la festa appena cominciata è già finita…

Vascello corsaro, dunque I due stendardi. E però vascello fantasma, di cui negli oceani letterari si parla, ma sottovoce, e che sono in pochi ad aver incrociato, circondato da una fama sinistra, oggetto di una maledizione neppure tanto misteriosa. Di troppi delitti si è macchiato Rebatet, il suo capitano, perché si possa stare lì ad ascoltarlo…

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Per tutti quei giudici che si ostinano a negarne la grandezza letteraria in nome dell’indegnità ideologica, Rebatet resta l’autore di LesDécombres, il più violento pamphlet antisemita pubblicato al tempo della Seconda guerra mondiale. A leggerlo oggi come un documento storico, salta subito agli occhi perché i fascismi persero quel conflitto. Erano internazionalmente provinciali. Pubblicato nel 1942, quando gli Stati Uniti sono già entrati nel conflitto e la Germania si è già impantanata in Russia, le 600 pagine della requisitoria del suo autore contro la decadenza francese irridono nell’avversario proprio ciò che di questi fa la forza: l’attesa di un aiuto esterno, la consapevolezza che le conquiste militari non bastano a tenere sottomesso un continente, che il proliferare di fronti bellici allontana la vittoria dell’Asse…Tanto il suo autore è efficace nel rovesciare sul lettore il come e il perché della disfatta del suo Paese (lo straordinario successo del libro sta anche in questo: mai la grandeur e l’orgoglio nazionali erano stati così fustigati da un connazionale, spietatamente analizzati e beffardamente ritratti), tanto è incapace di rendersi conto che la posta in gioco è globale, che fra terra e mare, schmittianamente parlando, ancora una volta è il dominio del secondo a fare la differenza, che lo scontro è totale, che non ci saranno prigionieri…

Letto in quest’ottica, LesDécombres è dunque la cartina di tornasole delle debolezze d’analisi dell’intellettuale fascista, del suo fideismo, della sua eterna battaglia contro il nemico interno, il «traditore», senza rendersi conto che è invece quello esterno che fa la differenza: non è dal «complotto» che si deve guardare,ma dalla realtà delle forze in campo. Sotto questo profilo, gli strumenti usati da Rebatet e, con maggiore o minore lucidità, da tutta la destra fascista francese, si rivelano di una disarmante fragilità. La critica al proprio sistema democratico gli impedisce di vedere le capacità di recupero che le democrazie hanno comunque in sé rispetto ai totalitarismi, la resistenza interna come fenomeno nazionale e quindi patriottico, l’impossibilità di una collaborazione nella quale la Francia accetti un alleato che in realtà è soltanto il suo occupante, lo straordinario valore aggiunto che il capitalismo bellico americano porta a una delle due parti in campo. Al suo posto prevale un’isteria dei toni che, specie nelle requisitorie antisemite sparse nelle pagine, oscilla fra vittimismo, pura e semplice volontà di potenza, mera pratica delatoria.

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Condannato a morte per quello che ha scritto, considerato colpevole di alto tradimento, il comportamento di Rebatet in tribunale non sarà dei più esemplari e questa annotazione, lungi dal voler fare del moralismo o del titanismo sulla pelle di chi, comunque, si stava allora giocando la vita, aiuta forse a capire meglio la psicologia e il peso delle idee. Non c’è dietro di lui il sentimento tragico di Drieu La Rochelle, gli manca la coscienza della propria grandezza di Céline, non lo sorregge quella visione un po’ infantile e un po’ cavalleresca del fascismo «male del secolo» di Brasillach… Siamo di fronte a un bravo, appassionato e colto critico d’arte, di musica e di cinema che nel maelstrom della guerra ha preteso di essere quello che non era: un esperto di politica, il propagandista di un’idea di parte. Lo ha fatto senza misurare i toni, lasciandosi trascinare dal carattere e non dall’intelligenza, senza rendersi conto che le parole sono pietre: ora che quelle pietre gli si rivoltano contro cerca di schivarle, si pente di averle lanciate, prova a diminuirne il peso, si scusa, vorrebbe cancellarle.

Riuscitissimo nelle centinaia di pagine in cui racconta le miserie, le tragedie e la farsa di una Francia imbelle eppure vanagloriosa, di una sinistra oscillante fra tradimenti e trombonismi, di una destra maurrassiana incapace di aderire alla realtà, di un regime di Vichy fatto di generali con il monocolo, di una nazione che si scioglie come neve al sole davanti ai cingolati della Wehrmacht, LesDécombres è però un cimitero di previsioni sbagliate, di analisi raffazzonate, di odi feroci e gratuiti, di piccoli rancori e meschine vendette, di regolamenti di conti intellettuali da bistrot che il clima del tempo eleva purtroppo a chiamate di correo, a denunce scritte e sottoscritte.

È però in carcere che, in attesa di essere fucilato, Rebatet riprende in mano il dattiloscritto del romanzo a cui stava lavorando ormai da un paio d’anni, quel Lesdeuxétendards che un critico come George Steiner ha definito «uno dei capolavori segreti della letteratura moderna, superiore a qualsiasi libro di Céline, escluso forse il Voyage». E che un cineasta come François Truffaut sarà solito regalare come pegno d’amicizia. Del resto, basta leggere le pagine in cui Rebatet descrive «le studentesse di Parigi», per capire da dove il regista di L’homme qui aimaitles femmes abbia tratto l’ispirazione per la sua apologia delle gambe femminili, «compassi che misurano il globo terrestre».

Torniamo al carcere, alla condanna a morte e al dattiloscritto di Lesdeuxétendards che gli sta facendo compagnia in cella. Inizialmente, gli aveva dato come titolo Ni Dieu ni Diable e così del resto era stato annunciato in LesDécombres: è però quello tratto da una citazione di Sant’Ignazio di Loyola che alla fine si impone.

Tramutata la condanna a morte in carcere a vita, ci lavora fino al 1949, un romanzo fiume di oltre 1300 pagine. Uscirà da Gallimard nel 1951, contribuirà a fargli finalmente aprire le porte del carcere, grazie alle pressioni di Gaston Gallimard, appunto il suo editore, e di Jean Paulhan, l’eminenza grigia della letteratura francese, viene oltralpe tuttora ristampato.

Vale la pena di fare un ultimo inciso «politico». Quando verrà chiesto al generale de Gaulle, che da membro del Comitato di liberazione nazionale nel 1945 aveva fatto fucilare per alto tradimento Robert Brasillach, se non giudicava incredibile la «grazia», concessa due anni dopo dal presidente della Repubblica Auriol a Lucien Rebatet, condannato a morte per lo stesso motivo,la risposta sarà degna di un personaggio storico del teatro di Montherlant: «Non meritava quell’onore!».

Negli anni Cinquanta, Francois Mitterrand, anche lui futuro inquilino dell’Eliseo, sempre a proposito di Rebatet se ne uscirà con una frase degna dello stile di Chateaubriand: «L’umanità si divide in due campi. Quelli che hanno letto Lesdeuxétendards e gli altri»…

Questa polarizzazione, come dire, «presidenziale», ci riporta al valore del romanzo. Cosa fa di questo romanzo fantasma un capolavoro sui generis? Ne abbiamo accennato all’inizio, ma vale la pena tornarci ancora un attimo. Innanzi tutto, siamo di fronte a un romanzo di idee o, se si preferisce, di ideologie. È il racconto e lo scontro fra due visioni del mondo, due morali, due estetiche. Da una parte c’è il cattolicesimo, dall’altra il paganesimo, da un lato c’è Cristo, dall’altro c’è Dioniso, su un fronte campeggia il misticismo dell’al di là, sull’altro il piacere e il dolore dell’al di qua. A un impianto del genere Rebatet, e questo è il secondo aspetto sui generis, presta, come già detto, una cornice di stampo ottocentesco, lo costruisce come avrebbe potuto fare uno Stendhal, un Flaubert: una folla di comprimari e di deuteragonisti, un’attenzione a stati d’animo, infatuazioni, entusiasmi dei soggetti narrati, una ricostruzione minuziosa di ambienti, un grande affresco della vita sociale e intellettuale della Francia del primo Novecento. Il tutto, però, terzo elemento di particolarità, con un linguaggio assolutamente moderno e spregiudicato, come se, insomma, Emma Bovary o Fabrizio del Dongo possedessero parole, modi di dire, comportamenti del secolo successivo, dove la morale si è modificata, il decoro è diverso, le aspettative e le possibilità di reazione e/o di redenzione si sono moltiplicate. Inoltre, e infine, siamo di fronte alla consacrazione scritta della giovinezza: lo abbiamo già visto, non ci ritorneremo su.

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Chi, una volta letto il libro, pensasse di trovarsi di fronte a un Rebatet completamente diverso da quello fegatoso, isterico e sfrenato di LesDécombres dimostrerebbe tuttavia una curiosa miopia. Non ci sono infatti due Rebatet, uno «buono» e uno «cattivo», ce n’è uno solo, di cui il secondo è la versione più meditata, più felice, più ambiziosa e più appagata del primo. I temi dello scontro politico vengono spogliati delle contingenze, delle frenesie, delle ambiguità di una scelta di campo obbligata e risistemati nell’ambito di una disfida fra concezioni del mondo dove le parti in campo sono rappresentate nel loro massimo di dignità e di capacità di seduzione, dove non c’è il nemico, ma l’avversario, dove le ragioni e i torti sono equamente divisi, dove l’autore non rinuncia a esprimere le proprie preferenze, ma lascia al lettore il diritto di appassionarsi all’una o all’altra tesi. Non c’è la miseria dell’impegno partigiano, c’è la grandezza di chi non abbassa i propri ideali a propaganda. In ultimo, ma non per ultimo, la sua composizione getta una luce potente sulla «salvezza nell’arte», ovvero la capacità di nobilitare uno stile di vita e una visione del mondo sottraendole alla caducità della cronaca e proiettandole nell’ambito atemporale della letteratura.

La lenta, ma costante fortuna che il libro ha avuto negli anni testimonia altresì come, nel cambiare delle generazioni e nel mutare dei costumi, rimanga vivo in esso il nocciolo duro di un pensiero ancora in grado di suscitare emozioni e di uno stile riuscito nella singolare impresa di essere senza tempo: a settant’anni dalla sua uscita, la modernità del linguaggio si è come adattata all’involucro ottocentesco che l’avvolgeva e ha finito per darle un’impronta tutta propria.

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Questa prima traduzione italiana del capolavoro di Rebatet chiude una storia, anch’essa per molti versi romanzesca, iniziata ormai quarant’anni fa da chi scrive e da Pino Grillo, allora fresco fondatore della casa editrice che oggi lo pubblica. L’idea di farlo conoscere in Italia faceva parte di quel velleitarismo venato di grandiosità che, purtroppo, mi era, e mi è, consono. Che un editore di scarsi mezzi economici e di tenace cocciutaggine ideale lafacesse propria, è la dimostrazione di come l’amicizia si nutra di misteriose quanto profonde affinità.

Negli anni Pino trovò un primo traduttore a cui commissionò il lavoro, sullo schema della divisione dell’opera in due volumi come per l’edizione Gallimard del 1977, da me ai tempi acquistata. La partenza del traduttore per l’Estremo Oriente, dove lo chiamavano i suoi interessi accademici, fu un primo momento d’arresto, la momentanea perdita del dattiloscritto relativa al primo volume, causa alcuni traslochi, del traduttore, dell’editore, di chi scrive, fu il secondo.

Ancora per tutti gli anni Novanta, per la ristretta cerchia di amici, Pino fu «il Rebatet italiano», intanto che i diritti di traduzione scadevano per poi venire rinnovati ogni volta che il progetto sembrava riprendere corpo, un nuovo, promettente traduttore, una coedizione… Era il sogno editoriale cui teneva di più, nonostante e forse proprio per i rischi che esso comportava: un libro enorme, per dimensioni e temi, dallo stile personalissimo, incredibile dosaggio di argot e cristallina classicità, dalla struttura polifonica: diari, lettere, narrazione in prima e in terza persona…

Nell’agosto del Duemila poi Pino Grillo morì e io mi misi l’animo in pace, senza pensare che lasciava un figlio, Manuel, che, fattosi adulto, con un gruppo di amici avrebbe preso in mano e rinnovato la casa editrice, trovato in Marco Settimini il traduttore ideale, e reso quel sogno una realtà vent’anni dopo. Lo stesso lasso di tempo che nel capolavoro omonimo di Dumas fa rincontrare i suoi moschettieri, invecchiati nel corpo, ma non nello spirito, sempre pronti a innamorarsi delle loro chimere.

Le ragazze di Parigi

Dal capitolo XIV

Da una buona mezz’ora Michel si era seduto con noncuranza sulla terrazza della Source. In quegli ultimi giorni d’esame gli studenti erano i padroni quasi assoluti dei marciapiedi tante volte battuti e pure del selciato. In contemporanea alla sua fantasticheria, Michel seguiva quel va e vieni giovanile con una punta d’ironia, perché era più grande di molti di quei ragazzi. Ma il numero delle piccole passanti tra la folla di liceali smargiassi lo intrigava e lo avvinceva.

«Ah! Ecco la spiegazione, si disse. Oggi dev’essere la grande uscita dei maturandi, la proclamazione dello scritto e delle prime serie di orali, ed è anche un giorno di lauree. Ora mi ricordo, avrei avuto l’esame oggi… Le statistiche dei giornalisti sono giuste, questo è il secolo delle diplomate. Già ci superano in trionfante maggioranza».

Il numero delle ragazze cresceva incessante. Gli oscuri anfiteatri le lasciavano uscire a ondate. Avevano nascosto i ragazzi a Michel, tanto metteva un improvviso amore nel contemplarle. Spuntavano a centinaia, a migliaia, fini, cicciottelle, alte, meno alte, diafane, piccanti, serafiche, sensuali, civettuole, infantili, delicate, robuste. Un popolo, un fiume, una foresta di ragazze scendeva lungo il viale nella polvere dorata in cui si concludeva uno splendido pomeriggio estivo. Scalpitavano gioiosamente all’uscita dalle segrete della Sorbona. Sospesi al polso da un nastrino avevano i loro cappelli di paglia e li facevano oscillare, li facevano volare sulla punta delle dita assieme a dei minuscoli accessori di scolarette. Ne passavano delle ghirlande piene di risate che si erano allacciate a braccetto, delle lunghe file che camminavano spedite con le loro gambe affusolate. Erano fiorite e leggere come i lorocorti vestitini dei bei giorni, pimpanti da vere parigine che con le loro fresche armi affrontano i pedanti più immusoniti. Su quella deliziosa ondata Michel aveva preso il volo.

«Che m’importa da dove vengono e dove vanno, che abbiano preso il diploma come un gioco o che gravemente vi credano, che un ditino sia stato macchiato d’inchiostro e che la ramaglia dei cespugli d’aprile sia un concerto di logaritmi, di Tito Livio, di Senofonte o di battutine sulla trippa e le unghie sporche di un barbuto e pulcioso di prof? … Un giorno forse sarò seduto in questo stesso posto. Non avrò più vent’anni e le fanciulle di sedici, di diciassette, di diciotto scenderanno ancora lungo questo viale, lo incanteranno di nuovo come oggi. La mia grande malinconia, il mio immenso rimpianto non saranno allora di averle lasciate fuggire, di non averle avute a decine e di non poterle mai più avere?

«Sì, sono tutte desiderabili, perché i miei occhi hanno cancellato, hanno negato quelle brutte. Arderei per queste brunette dai fini visi allungati, i nasi sottili quasi arabi, i loro grandi occhi caldi tra le sopracciglia spesse e pure, l’emozionante ombra color bistro e l’altra ombra di un impalpabile blu sulle labbra, i loro petti acuti e tiepidi sotto il tùssor, la loro ardente delicatezza delle membra e delle reni. Arderei per le castane dai capelli vaporosi che spumeggiano nella luce; per le bionde dai polpacci rosa e i ventri dorati; per quelle dai boccoli da fanciulline, gli occhi vivi e così graziosamente falsi, i musetti da gatte, tondi e un po’ corti; e per le monelle e per quelle fiere, per quelle che tendono bene la coscia e l’anca mentre trotterellano, per quelle che sono un po’ chine in avanti, dolcemente, o per quelle molto assennate che tornano veloci alle belle dimore borghesi, stanno dritte e hanno i seni infuori, e per quelle che ne sanno, le cacciatrici che non si abbordano con lo stesso batticuore, ma che quando le si stringe fanno girare la testa in modo così divino.

«E desidero pure, oh, sì, le meno belle, le troppo studiose, quelle che si vestono un po’ a casaccio o da maschiacce, ma che sarebbero così eccitanti da ribaltare nelle loro camerette d’hôtelparticulier, tra il loro dizionario e le loro foto dei templi greci e di Chartres, che arrossirei (sono così stupido!) ad accompagnare fuori,ma che davanti al loro divano, senza i loro occhiali, mentre sbattono un po’ i loro dolci occhi miopi, hanno dei seni ammirevoli sotto la loro semplice blusa che si slaccia e un’aria struggente quando il loro tosone fitto, il loro tosone nero, il loro tosone fulvo, quello più casto come quello più animale si mostra per la prima volta agli sguardi dell’uomo; che hanno una bellezza ignorata e si schiudono per colui che l’ha finalmente saputa intuire, e che amano così appassionatamente l’amore che non ci si sogna di fargli fare.

«E quelle di quindici anni… Ah! I veri sensuali, i bei ribaldi del XVI secolo, i rudi amatori della copula! Loro che le preferivano appena sbocciate, nella loro prima gemma di donne! Come avevano ragione! Le piccole liceali! Per godere non c’è nulla di simile, in attesa che imparino a godere grazie a voi!

«Dello spirito e del cuore di tutte loro me ne curo? O piuttosto, tutto ciò che val la pena d’essere conosciuto nelle loro anime non lo esprimerebbero, come il succo del loro essere, al momento del bacio e della tenera e dura aratura? Oh! Quella che si ferma qua! Basta il suo piccolo gesto di rovesciare all’indietro la gola a salvare un viso un po’ meno grazioso… Non è forse una cosa che vale tutte le idee del mondo?

«Lunghe e dolci gambe. Soavi piccole ginocchia polite! E da dietro, le adorabili pieghe. Capelli di notte profumati, capelli di sole, ciuffi di sottobosco! Criniere vergini. Pudori e selvatichezze. Idoli e bambine! Colata di braccia nude e conchiglie dei ventri. Sodezza e satin sotto i palmi delle nostre mani, natiche tese e fondenti, fianchi già materni, cosce da aprire, angoli lontani della pelle, più nudi della pelle più nuda e che nulla potrebbe difendere quando noi siamo arrivati là. Fossette, cavità, profondità timide, brucianti, liberate, rifugi d’uomini. Oh miei nidi, mie pelurie, mie bocche, miei piccoli seni, mie caprettine, mie cerbiatte, mie puledrine! Graziose piccole vite che passano! Miei garofani, miei fiordalisi, mie albicocche, mie ciliege. Miei giunchi, mie mattine, mio latte, miei boschetti. Oh zampillo puro e limpido dei miei piccoli alberi! Oh mie corone, mie delizie, mie fanciulle.

«Ah!… Ahimè! Posso amare le fanciulle? Sono inchiodato all’amore? A quale amore?».

Michel si risvegliò da quel pianeta scompaginato nel quale le fanciulle di diciott’anni hanno paura dell’amore e le donne di quarantacinque anni lo vogliono troppo, contemplando la pendola elettrica di un orologiaio e comprendendo d’improvviso che l’ora del suo appuntamento con Régis era già passata da molto.

–          Beh, miei avi, che corsa alla cavallina!

Aveva la bocca arida, le mani umide e le ginocchia tremanti.

–          Come ho fatto a lasciarmi distrarre in questo modo? Ecco,questo per Régis è un bell’esempio di trappola. Accidenti! Che cosa direbbe di questa mia escursioncina?

Fino a notte fonda, degli spettri di abiti chiari, di capigliature, di profili sospesi tra cielo e terra sfarfallarono davanti ai suoi occhi.

***** La rinnovata Casa Editrice Settecolori fondata da Pino Grillo alla fine degli anni Settanta, ora è portata avanti dal figlio Manuel Grillo e sostenuta da una decina di professionisti del mondo della cultura, dell’arte, del giornalismo. imprenditori, avvocati…tutti hanno in comune l’amore per i libri e per un certo filone di letteratura.  Il catalogo della casa editrice lo si puo’ trovare via internet sul sito della casa editrice o richiederlo direttamente a Pino Grillo www.settecolori.it


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