GEORGE HOININGEN HUENE UN GENIO DEL CLIC DA NON SCORDARE MAI


A  Milano non capita spesso di vedere delle belle Mostre, la Triennale è come morta da tempo, il PAC pure ecc…Si salva il Mudec che ogni tanto ma una mostra all’ anno ne vale la pena vedere, le Gallerie di’Italia “robetta” e Palazzo Reale come in questo caso, decenti e  impontanti e con tante opere 2 belle mostre l’anno. Una di queste è questa di questo grande fotografo. Le luci e le didascalie sono un disastro, un bravo allestitore come è sempre stato lo studio Albini di Milano mai è chiamato da questa amministrazione comunale il cui sindaco è Sala (un disastro in tutti i senso e ha distrutto di fatto la nostra bella Miano, nonche prelevato dalle tasche dei milanesi parecchi soldi con le sue auto aelettriche o ibride..e addio ai nostri bei motori in nome altro che della parolona “green”, l’inquinamento dato soprattuto dalle moto, furgoni e camion ecc., il tutto cocepito in nome del capitae. E per entrare in casa propria Area C o B il costo giorbaliero incluso sabato e domenica è 7.5 Euro e 3 euro per i residenti.  Torniamo a consolarci con la bellezza delle opere di questo grande fotografo .

Nato nel 1900, l’infanzia e l’adolescenza di George Hoyningen-Huene si svolsero all’interno di un mondo dorato che poteva però assumere le sembianze di un prigione, dorata anch’essa, ma da cui era impossibile evadere e alle cui inflessibili regole ci si doveva inchinare. Suo padre, un nobiluomo baltico, primo scudiere dello zar Nicola II, governava i suoi figli, racconterà George, “come i suoi cavalli, con violenza e brutalità” e apparteneva a un’epoca dove “nobiltà, militarismo, autoritarismo, dovere basato su nobili principi e un’incredibile tensione emotiva” davano vita alla pressione estenuante “di un’angoscia metafisica”. Era un mondo di cose sacre, di icone e di incenso, ma anche “di divieti irragionevoli e di valori mistici. Era un mondo di leggende e di miti con un tenore febbrile e fanatico”.
La casa di famiglia, a San Pietroburgo, si trovava nelle scuderie imperiali, dove il suono nell’aria delle campane della chiesa accompagnava sull’acciottolato il rumore degli zoccoli degli oltre trecento cavalli lì alloggiati. C’erano le feste, i balli, ma anche l’educazione severa in casa, la scuola luterana, il liceo imperiale, il formalismo distaccato nei rapporti e, più in generale, l’idea che l’unico dovere di un bambino fosse quello di ubbidire, non dare fastidio ai grandi e sbrigarsi a diventare adulto. A lungo George sognò di fare l’acrobata…Gli piaceva la ginnastica e l’armonia dei corpi, coltivava una passione per il bello che le visite all’Ermitage, in compagnia del suo curatore, e amico del padre, il barone Foelkersam, rinnovava a ogni percorso.
A quattordici anni, quel mondo incantato e insieme rigido nella sua immobilità, prese a scricchiolare. Lo scoppio della Prima guerra mondiale vide la Russia prima dissanguarsi militarmente sul fronte orientale e poi precipitare nei torbidi di una pace separata, una rivoluzione, una guerra civile. Dopo Yalta, dove il ragazzo si era trasferito con la madre, nel 1917 madre e figlio raggiunsero l’Inghilterra, grazie all’aiuto dei parenti americani di lei, il cui padre era stato un diplomatico alla corte di Alessandro III. George rientrò in Russia nel 1920, come interprete al seguito del Corpo di spedizione britannico, estremo tentativo europeo di appoggiare le “guardie bianche” filomonarchiche contro il bolscevismo repubblicano e rivoluzionario che era andato al potere. A Caricyn, l’odierna Volgograd, l’ormai ventenne George contrasse il tifo, giacque senza conoscenza per una decina di giorni in una barella da campo, fu infine imbarcato su una nave ospedale con destinazione Londra. Convalescente, da lì raggiunse in Francia la famiglia, compreso il padre sessantenne, fuggito in maniera rocambolesca dalla Russia. I genitori decisero di rimanere a svernare sulla Costa Azzurra, le due figlie femmine, Elisabeth e Helen, optarono per Parigi. Il tenore di vita di un tempo era solo un ricordo e se per il barone e sua moglie l’avvenire poteva essere un pensionamento ancora decoroso, per i ragazzi Hoyningen-Huene era necessario trovarsi un lavoro, attività per loro del tutto sconosciuta. In patria non torneranno più.
Parigi era allora la capitale incontrastata della moda, nonché dell’emigrazione russa. Elisabeth e Helen cominciarono lì nella prima, con l’aiuto di qualche figura di spicco della seconda. George fece inizialmente la comparsa cinematografica. Possedeva uno smoking, un bel portamento, era perfetto per le scene di massa ambientate nelle feste oppure in teatro. Nei tempi morti imparò come le scene venivano illuminate, i décor costruiti…Aiutò altresì le sorelle, disegnando il logo della loro prima, piccola maison, poi qualche capo di abbigliamento, si inventò figurinista e illustratore. Nel 1926, Vogue-France, per la quale aveva disegnato una serie di fondali per le immagini di moda in studio, decise che tanto valeva metterlo dietro l’apparecchio fotografico. Il fotografo di moda George Hoyningen-Huene nasce allora e per un ventennio ne sarà il genio riconosciuto quanto incontrastato.
La bella mostra George Hoyningen-Huene. Glamour e avanguardia (Palazzo Reale, a cura di Susanne Brown, fino al 18maggio) la prima in Italia, ne ripercorre ora le tappe, arricchita da un catalogo (Moebius editore) che oltre a essere una festa per gli occhi, racconta con molta accuratezza che cosa fossero le riviste di moda dell’epoca, le tecniche e lo sviluppo dell’arte fotografica, il clima e l’atmosfera dei cosiddetti anni folli fra le due guerre, il passaggi dal cinema muto e in bianco e nero al sonoro e al colore, esperienza in cui, alla fine degli anni trenta e poi nel dopoguerra, Huene fu protagonista non secondario.
Tornando ancora per un momento agli inizi della sua carriera, varrà la pena osservare che la professione di modella, per come si è venuta configurando e per ciò che oggi vediamo in passarella, allora non esisteva. Quelle che posavano per Huene erano per lo più ballerine, cantanti e, soprattutto, profughe russe…Sono gli anni di Josephine Baker, delle Dodge Sisters, di Jean Barry e di Suzy Polidor, ma anche di Ija de Gay, di Nathalie Paley, di “Lud” Feodoseyeva, per fare solo tre nomi.
La prima, alta più di un metro e ottanta, era una bionda statuaria, occhi azzurro vivo, i capelli con la scriminatura diritta in mezzo. La seconda, figlia del granduca Pavel Aleksandrovic Romanov, occhi grigi e capelli biondi, delicata ed eterea, era una che preferiva “l’adorazione e la poesia alle emozioni”, un modo elegante per dire che era frigida. Fu l’amore platonico del ballerino Serge Lifar, dello scrittore Jean Cocteau, entrambi omosessuali, del couturier Lucien Lelong, che per lei lasciò la moglie e che da lei fu poi lasciata per un produttore teatrale…La terza, di sangue cosacco, aveva un carattere, come racconterà la figlia, “puramente slavo: era gioia frenetica alternata a un dolore infinito. Non aveva paura di niente”. Nel primo incontro con Huene, gli scagliò un abito in faccia…
In quegli anni fra le due guerre, Huene incarnò e insieme fotografò quello che era lo Spirito del tempo, un qualcosa in cui c’era come una grazia liberata dal corpo, una modernità sapientemente intrisa di antico, un equilibrio fra candore e erotismo. Lo poté fare non solo perché aveva una conoscenza dell’arte e della scultura classica fuori del comune, ma perché la sua cerchia di conoscenze e di amicizie contemplava Dalì e il già citato Cocteau, Mann Ray e Kees van Dongen, Coco Chanel, Greta Garbo e Marlene Dietrich…La sua foto di Sonia Colmer nei “pyjamas dresses” di Vionnet, ha lo stesso magnifico drappeggio, il senso di volo contenuto e un equilibrio che rimandano al tempo scomparso eppure eterno cui appartenne il Partenone. Senza mai scadere nel passatismo, Huene, come egli stesso racconta, si impegnò a celebrare “l’arrivo dell’antichità a Montmartre sulle note della musica jazz. Colonne ioniche si ergevano accanto a fumi di ciminiere industriali(…). E tra i piedistalli dai quali gli dei della Grecia guardavano nudi e in silenzio verso la terra, tra nitriti di cavalli e figure eroiche atleticamente scolpite, le signore e i signori di Parigi, Londra, New York e Biarritz si godevano il sole”.
Quando, all’indomani della Seconda guerra mondiale, Richard Avedon fu chiamato da Harper’s Bazaar a sostituire Huene che aveva deciso di lasciare la rivista, uscendo dall’ascensore incontrò proprio quest’ultimo, venuto a salutare la redazione: “Arrivi tropo tardi” si sentì dire ironicamente, a significare che tutto quello che si poteva fare era stato fatto, che non c’era più spazio per fare qualcosa di diverso e che, soprattutto, se n’era andata un’epoca e non c’era altro che rassegnarsi.


Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Continuando la navigazione su questo blog, accetti l'utilizzo dei cookie. Maggiori informazioni

Questo blog utilizza i cookie per fonire la migliore esperienza di navigazione possibile. Continuando a utilizzare questo blog senza modificare le impostazioni dei cookie o cliccando su "Accetta" si permette il loro utilizzo.
Per ulteriori informazioni consulta la cookie policy

Chiudi

Privacy Policy
Cookie Policy