IL GRANDE GIORNALISTA E SCRITTORE DINO BUZZATI A 50 ANNI DALLA MORTE. DAL LIBRO IL DESERTO DEI TARTARI NE USCI UN FILM BELLISSIMO CON LA REGIA DI VALERIO ZURLINI
Di Dino Buzzati (16 ottobre 1906 nacque a San Pellegrino nei pressi di Belluno e mori a Milano il 28 gennaio del 1942), so tanti particolare che si aggiungono a quelli che tanti sanno e che hanno letto i suoi libri, conosciuto il suo amore per la pitture e i i numerosi articoli per il Corriere della Sera. Gaetano Afeltra, suo collega al Corriere di via Solferino a Milano e da giovani cronisti mi raccontava il bravissimo direttore Gaetano Afeltra, dividevano due locali perchè entrambi non erano di Milano, uno da Amalfi e l’ altro dalle sue montagne nel Bellunese. Abitava in Corso di Porta Venezia e il suo grande appartamento con quadri appesi fino al soffitto era una vero museo e ci si augura che diventi una Casa Museo. Dalle sue finestre vedeva bene lo Zoo di Milano ai Giardini Pubbliche che danno da Corso Venezia a Via Palestro fino in Via Manin. Li in parte si ispiro’ per i suoi disegni escritti sugli animali e gli uomini tanto da creare la nota e corposa opera “Il bestiario umano”. Nel festeggiare i cinquant’anni, Dino Buzzati aveva scherzato sulla sua epigrafe tombale: “Dino Buzzati, scrittore sommo. Nato il 16-10-1906. Morto il 30-2-2017 per caduta da cavallo”…Centoundici anni di vita, insomma, per esorcizzare la paura della morte in chi, avendo visto ancora ragazzo morire il padre proprio a quella stessa età, e per un tumore al pancreas, era da allora vissuto con la paura che anche per lui sarebbe andata allo stesso modo. Il destino gli concesse quindici anni di più, ma gli inflisse lo stesso male. Il suo ultimo disegno fu lo schizzo di una poltrona, la sua, vuota, l’ultima foto che lo ritrae, lo vede a Cortina, un vecchio curvo che cammina con passo incerto appoggiato a un bastone. Muore nelle prime ore di un pomeriggio di neve e il giorno dopo il carro funebre passerà davanti al Corriere della sera che per quarant’anni era stato per lui casa, prigione e fortezza. La tanto temuta partenza per l’al di là, alla fine è arrivata, il reggimento si è messo in marcia e Buzzati non ha potuto fare altro che ubbidire alla chiamata, come ha sempre fatto per le cose importanti della vita.
Le metafore militari a Buzzati piacevano, come del resto la vita militare. “Sono sempre stato affascinato dalla vita militare, che dà libertà proprio perché ci libera dal problema della scelta”. Nelle foto che lo ritraggono da giovane come da uomo maturo, è sempre in uniforme pur se è in borghese, giacche ben tagliate, colletti ben stirati, cravatte ben annodate, i capelli eternamente corti, la sfumatura eternamente alta. Era una sorta di divisa ideale che si accompagnava al nitore, al tenere a freno le pulsioni, a una compostezza che era estetica e insieme morale, un argine a tutti i demoni che gli erano propri e che ben conosceva: l’insoddisfazione, l’ambizione, la disperazione, la paura. “Nelle scuole si dovrebbe imparare fin da piccoli a non vantarsi, a non voler comparire più di quanto non si sia in realtà, insomma a non essere cafoni. Questo è il peggior difetto degli italiani”. Naturaliter conservatore, all’inizio degli anni Sessanta confesserà a sé stesso: “Il conformismo, l’opportunismo e l’arrivismo filomarxista dei miei colleghi mi fa venire semplicemente il vomito, e come primo impulso mi fa diventare assertore della monarchia assoluta”. (Nella foto gli amici piu’ cari..Montanelli, Afeltra e Biagi)).
Che con un tale habitus mentale Buzzati abbia finito per fare il giornalista, ha dello stupefacente e dell’eroico. “10 luglio 1928. Oggi sono entrato al Corriere, quando ne uscirò? -presto, te lo dico io, cacciato come un cane” annota quel giorno sul suo diario. I colleghi lo chiamano Cretinetti, come il personaggio delle comiche cinematografiche del primo Novecento, e in quel soprannome c’è la boria riverniciata di cultura d’accatto propria della categoria giornalistica. Lo trovano lento, lo sentono distante, non gli danno confidenza, scambiano un’eleganza naturale per spocchia, l’ethos della distanza per superba, la disciplina e il rispetto delle gerarchie per piaggeria e/o vigliaccheria. E’ un corpo estraneo di cui si farebbe volentieri a meno se a impedirne l’espulsione non ci fossero le straordinarie dote di scrittura, inventiva, intelligenza tecnica, tenacia, abnegazione. Al Corriere farà di tutto, dal cronista all’inviato, dal direttore ombra del suo supplemento domenicale al critico d’arte, ma la sua è come una presenza aliena, un fantasma in redazione di cui si coglie lo spirito, ma non il corpo, che pure è ben presente, fino a tarda sera, fino alla chiusura del giornale. Uno splendido ritratto di Enzo Bettiza ce ne dà l’immagine crepuscolare che accompagna i pochi mesi che ancora gli restano da vivere: “Già ingiallito dal male che fra poco lo avrebbe ucciso, stanco di aspettare in piedi l’udienza del direttore, Buzzati si era fatto portare da un fattorino una sedia e si era seduto lì, nel mezzo del corridoio, col bozzone ancora umido della pagina dell’arte appoggiato sulle gambe accavallate. In quel corridoio tirato a lucido, che evocava un deserto, si poté vedere per oltre un’ora un rigido ometto magrittiano dal viso ocra, tutto vestito di nero, che con sguardo assente fissava una piccola luce rossa davanti a sé. L’attesa sembrava eterna. Sembrava anche che dietro quel fioco lumino, invece del loquacissimo Spadolini, non ci fosse che il nulla della camera mortuaria”.
Nel cinquantennio della morte, Mondadori ripubblica, ampliato nella veste e nei contenuti, quel Buzzati. Album di una vita fra immagini e parole (a cura di Lorenzo Viganò, 419 pagine, 30 euro) che uscì nel 2006 per celebrare il centenario della nascita. E’ una vera e propria festa per gli occhi, vista anche la duplice dimensione artistica di Buzzati, scrittore di parole come di immagini, e ancora una volta l’occasione per interrogarsi più a fondo su una presenza anomala anche nel campo letterario, un realismo fantastico, il suo, spiazzante tanto nel tempo della prosa d’arte, del romanzo d’evasione e poi della retorica del fascismo, quanto in quella dell’impegno neo-realista e della letteratura industriale del secondo dopoguerra. Eppure, dal Deserto dei tartari a Un amore, a Romanzo a fumetti, la sensazione è quella di una presenza sempre attenta ai grandi temi del vivere e del morire e mai tentata dal divertissement puro e semplice o dal fantasy d’evasione. Sensazione acuita dal Buzzati uomo, le sue ossessioni, le idiosincrasie, il tormentato rapporto con il sesso, l’alternarsi nevrotico di esaltazione e depressione, un volto sofferto coperto da una maschera di impassibilità e a volte una maschera dietro a cui c’è solo il vuoto, l’assenza completa di ogni emozione. Non si piaceva, da vecchio, Buzzati: “Sono brutto. Secco, naso pesante, voce ruggine, introverso, nessuna comunicativa, scarso successo con le donne. Ne ho sofferto. Se sono infelice? Passabilmente. A giorni (…) mi vedo con l‘occhio esterno, impietoso dei sessant’anni. Non so recitare, non so far discorsi, ho difficoltà di comunicativa”. Non si era piaciuto nemmeno da giovane: “Mi accorgo di una completa mancanza di volontà, in secondo luogo di una assoluta mancanza di genialità. Rimane una vita grigia come un topo, una carriera di impiegato che mi farà crepare, crepare sì. Oh avessi almeno l’amore come tutte le teste di cazzo che si vedono in giro!” Tranne l’ultimo, la sposa-bambina Almerina, tutti gli amori di Buzzati saranno del resto impossibili.
La brevità della vita, l’attesa della grande occasione, l’ineluttabilità della morte, la vanità e insieme l’insoddisfazione: questi sono i temi che Buzzati ha sentito e su cui si è interrogato, sempre cercando di scrivere al meglio della sua arte, sempre insoddisfatto e sempre però pronto a ritentare: “Tempo buono per scrivere non me ne rimane molto. Sì, può darsi benissimo che i capolavori siano destinati a rimanere nella penna; ma non voglio avere rimorsi di fronte a me stesso. E’ comprensibile che ci tenga cento volte di più all’attività di scrittore che a quella di giornalista tecnico”. Sapeva quello che valeva. Il suo chiodo fisso era “il tarlo della verità”.