HENRY MILLER…DA VENEZIA DA FINIRE
Henry Miller definì gli Stati Uniti d’America un “incubo con l’aria condizionata”. Don Delillo, lo scrittore dal cui romanzo White Noise il regista Noah Baumbach ha tratto un film che ne mantiene il titolo e ne rispecchia abbastanza fedelmente la storia, è più o meno d’accordo. L’unica differenza, forse, è che insieme all’aria condizionata ci mette un po’ del “diritto alla felicità” di cui parla la costituzione di quel Paese e insomma si industria a far sì che l’incubo resti sempre e comunque nelle dimensioni del brutto sogno da cui, con un po’ di buona volontà, ci si può sempre svegliare…
Film d’apertura e in concorso di questa 79° Mostra del Cinema, protagonista un Adam Driver ingrassato e un po’ dimesso per meglio adattarsi al personaggio, White Noise racconta il Mid West americano per come abbiamo ormai imparato a conoscerlo pur senza esserci mai stati. C’è un campus universitario, il College on the Hill, dove si insegna di tutto, dalla vita di Elvis Presley a quella dei delfini, alla tecniche di rilassamento individuale, c’è un super mercato dove la comunità della cittadina che al campus fa da cornice periodicamente si incontra, ci sono le famiglie allargate, frutto di coppie pluri-divorziate, ma che non per questo si rassegnano all’idea di dover fare a memo del focolare domestico e del junk food, il cibo spazzatura, che ne è la quintessenza.
E’ insomma un’esistenza rassicurante quella dei suoi abitanti come dei suoi studenti, e la più rassicurante è in fondo quella del professor Jack Gladney, che è già al suo quarto matrimonio, quattro figli, di cui solo l’ultimo con la moglie in carica, e che si è inventato, pur non sapendo il tedesco, l’Istituto di studi hitleriani che ha dato alla sua università popolarità e fondi. Studiare Hitler o, come accennato prima, Elvis Presley è in fondo per gli studenti e i professori americani la stessa cosa: mito, psicosi di massa e istinto di morte, insomma. E poi, sia la rock star sia il nazi-dittatore amavano la loro mamma….
Un bel giorno, un camion cisterna che trasporta liquidi tossici va a fuoco ed esplode con tutto il suo letale contenuto: il panico si diffonde, l’area viene evacuata, subentra la paura, il confinamento, la quarantena, ci si affida alla scienza per essere rassicurati, alle news della televisione per essere informati, agli strizzacervelli per credere ancora nel futuro. Una babele, in parole povere. Vi ricorda qualcosa?
“Ho letto il libro di De Lillo quando uscì – dice il regista- ovvero negli anni Ottanta. Mi sembrava che rappresentasse benissimo l’assurdità, l’orrore, la follia di quell’America. Poi l’ho riletto all’inizio del 2020 e l’ho trovato di un’attualità ancora più sconvolgente, visto che è stato allora che il mondo si è chiuso per la pandemia”.
Già a Venezia nel 2019 con Marriage Story, e ancor prima, nel 2015, con il documentario De Palma, Baumbach è un cineasta molto attento alle dinamiche di coppia alle prese con gli imprevisti della vita. A volte, però, ciò che funziona sulla pagina scritta non rende altrettanto sul grande schermo. Delillo è un romanziere con una forte attenzione per il grottesco e per la raffigurazione satirica e la sua descrizione del consumismo e dei suoi feticci è spesso esilarante. Qui la necessità di dover comprimere cinematograficamente una storia, ha come risultato troppe storie, e troppo insieme: c’è la nube tossica, c’è la paura della morte della moglie del professore (Greta Gerwig sullo schermo, nella vita la moglie del regista), una fobia che ci si illude di poter curare chimicamente. C’è il professore che a sua volta pensa di essere stato contaminato e che scopre come uccidere possa esorcizzare la paura di morire e che non sempre la razionalità riesce a dominare i nostri comportamenti. C’è persino lo scienziato “pazzo”, ovviamente di origine tedesca…
Così, il film vira ora al tragico ora al comico, ha l’andamento di un thriller e insieme i toni della commedia. Nelle intenzioni di De Lillo, il suo Jack cercava di tenere a bada “un persistente senso di disastro su larga scala continuando a inventare la speranza”… Ma Driver è troppo attonito e il suo curriculum universitario troppo ridicolo per potergli prestare non diciamo rispetto, ma neppure attenzione. E, nell’insieme, l’interrogarsi sulla morte, sul suo senso, non riesce, nel romanzo come nel film, a elevarsi sopra il balbettio con cui la civiltà della tecnica si ritrova di fronte a un problema che tecnicamente non può essere risolto. Non è riparabile, non ci sono i pezzi di ricambio.