LA CORRIDA DEL GRANDE MATADOR TOMAS E QUELLA ALTRETTANTO DIGNITOSA DI PERERA AD ALGIACIRA
Il sole cocente e i 40 gradi ad Algesiras si fa sentire. A pochi Kilometri dallo stretto di Gibilterra la terra trema, come tremano gli appassionati di corrida e i tanti amanti di una tradizione che rischia di essere in vai d’estinzione. Animalisti e governo. Già in alcune regioni della Spagna ‘è vietata. Questa mattina sentivo il Giornale Radio e contemporaneamente avevo aperto il mio cellulare per vedere le prime notizie e c’era un filmato su un isolotto tra Spagna e Portogallo di un torero non in un’arena, ma con tanto di pubblico che matava con in braccio un bambino piccolo e un toro robusto e infuriano gli dava da torcere…Follia!!! Torniamo alla grande corrida di Tomas e Perera, libri di Tomas ne ho trovati molti anche se le librerie in Spagna praticamente sono cosa rara,persino a Madrid come a Malaga, quest’ultima piu’ fornita ve ne è una sola. Ogni volta che riappare, i suoi seguaci si precipitano ad adorarlo, non importa quanta strada debbano fare e che percorso debbano intraprendere. A fine giugno, dopo quasi due anni d’assenza, la città prescelta è stata Algesiras, l’ultima della Spagna mediterranea, sulla baia opposta a Gibilterra, porto industriale maleodorante dove di solito non va nessuno a meno ch
gi più disastrati della modernità spagnola, lo scempio edilizio che da Torre Molinos a Marbella ha fatto della costa del Sol un verminaio di residenze finto moresche, simil-tirolesi, il cosiddetto “paradiso dei golfisti”, con il green ricreato vista mare…Attraversarlo stringe il cuore e solo l’idea di celebrare quella apparizione può lenire la punizione che ti viene inflitta.
“Tomatisti”, si chiamano così gli adepti di questo culto che in dodicimila hanno invaso Algesiras. Prendono il nome da José Tomàs, che non è un cantante rock, un’icona pop o un predicatore, laico o religioso che sia: è un torero. Sì, avete capito bene, il toro, la muleta, il sangue e l’arena, quelle cose lì, insomma. Ma come, esistono ancora? Hanno ancora un pubblico che le segue? Che volete che vi dica, io faccio il cronista, registro ciò che vedo per poi magari ragionarci sopra. E forse è meglio dire che più che un torero Tomàs è (corsivo) il torero per eccellenza di questo XXI secolo, il Messia chiamato a riscattare la corrida da se stessa, spogliarla della finzione e dello sfruttamento commerciale e riconsegnarla alla nudità della vita e della morte. Perché Tomàs è uno che ha il corpo ricucito di cornate, perché, come diceva Orsono Welles, “il torero è un attore a cui succedono cose vere” o, per dirla con il diretto interessato, “un torero è una persona che entra nella plaza de toros per cercare di creare arte e per farlo deve mettere in gioco la sua vita”.
Facciamo un passo indietro. José Tomàs ha smesso di toreare nel settembre del 2002, quando aveva 27 anni e sei anni di “alternativa” alle spalle. E’ tornato una prima volta nel 2007, scegliendo come prima plaza Barcellona e provocando il tutto esaurito, 20mila spettatori, in quella che era allora la città anti-taurina per eccellenza, anche se più per motivi politici (Catalogna versus centralismo spagnolo) che animalisti. Si è ritirato una seconda volta nel 2011, per poi riapparire nel 2016 a Valladolid…In questo andare e venire c’è il filo rosso di un’unicità rappresentata dal fatto che luoghi (normalmente plazas di seconda categoria) tori, colleghi sono una sua scelta, il caso più unico che raro di un torero che è al di fuori delle regole del business concernenti il mondo del rodeo. Aggiungete che si è sempre rifiutato di acconsentire alle riprese televisive delle sue corride (“la televisione non riproduce l’emozione che si sente nella plaza”), che le sue interviste si contano con il contagocce, che non frequenta né la mondanità da stampa rosa né l’ambiente taurino, aficionados e critici compresi, e avrete un torero libero da ogni vincolo economico-pubblicitario-professionale. Tomàs non torea per vivere, insomma, e però “vivere senza toreare non è vivere”…
Il non essere un fenomeno di moda, ma un fenomeno popolare merita proprio per questo un’attenzione maggiore. La leggenda di Tomàs è opera del pubblico, non della critica, viene naturalmente dal basso, non è stata imposta dall’alto. Adesso che è di fatto fuori dalla tauromachia in quanto sistema economico anche i critici sono disposti a riconoscerne la grandezza: non è più un pericolo, non rischia più di minare equilibri, alleanze, rendite di posizione. Già un secolo fa, nel suo Les Béstiaires, Montherlant aveva osservato come la stampa spagnola taurina peccasse in primis di partigianeria e mezzo secolo più tardi, in un pamphlet intitolato Les oreilles et la queue (Toro è stata la sua traduzione in italiano) Jean Cau avrebbe rincarato la cosa definendo i suoi rappresentanti come degli “aedi”, non dei critici, cantori professionisti, spesso stipendiati, dei “loro” toreri. Non è che da allora a oggi sia cambiato molto sotto questo aspetto, non fosse che la modernizzazione che in questo arco di tempo ha continuato la sua corsa ha ulteriormente minato il ritualismo che è alla base della corrida e in cui i tre elementi classici erano torero, toro e, appunto pubblico, rispettivamente reminescenze del sacerdote, della vittima e della comunità dei fedeli. A quest’ultima si è sempre più sostituita la “gerarchia ecclesiastica”, il critico come clero chiamato a spiegare e/o regolare ciò che succede, tacciando di incompetenza e di ignoranza proprio chi di quella “funzione pubblica” è il reale destinatario. Deriva da qui il tecnicismo esasperato da un lato, l’esaltazione della stilizzazione dall’altro, dove ciò che si chiede al torero è sì la bellezza del gesto senza però la pericolosità che da esso può derivare. E’ Enrique Ponce il torero preferito dalla critica, perché sa sempre fino a dove può e deve osare, l’esatto contrario di Tomàs che tra fare un passo indietro o rischiare di prendersi una cornata sceglie la seconda strada: “Mi sento meno in debito con me stesso”.
Tutto ciò ad Algesiras è stato di un’evidenza solare, la dimensione della fiesta popolare nel senso più completo del termine, con i bambini che alla fine invadono l’arena ormai vuota e agitano la capa, con gli spalti dove si fuma e, negli intervalli, si mangia e si beve allegramente, con l’entusiasmo partecipe e consapevole di fronte al lavoro del torero, l’ammirazione per ciò che vede svolgersi sotto i suoi occhi, il coraggio e la potenza, l’intelligenza e la forza, l’arte e la violenza. Non è un caso che in quella corrida uno dei sei tori sia stato “indultado”, ovvero graziato della vita proprio per la sua combattività. E non è un caso che l’altro torero in cartello con Tomàs, Miguel Angel Perera, ne sia stato in pratica il duplicato, in alcuni momenti persino meglio dell’originale, effetto della suggestione, la stessa che Tomàs trasmette al pubblico di cui, appunto, è il prolungamento sull’arena.
A questo proposito, uno scrittore come Fernando Gonzaléz Vinìas definisce il modo di toreare di Tomàs dionisiaco, contrapponendolo a quello apollineo di Ponce, ma non sono sicuro che questa distinzione nietzschiana sia la più pertinente. Non c’è l’ebbrezza in Tomàs, c’è la visceralità, che è un’altra cosa, un’estasi estetica che si sublima nella purezza, non nello sfrenamento, qualcosa che gli permette di stare davanti al toro come se il toro non esistesse, o come se il tuo stesso corpo non fosse lì: “Quando toreo bene mi dimentico del corpo, perché del corpo non ci si deve preoccupare. Il corpo, quando si fanno le cose bene, fa da sé. Se lo forzi, se cerchi la posizione, non va bene, non è naturale”.
Più che ad Apollo e Dioniso, la tauromachia di Tomàs rimanda al bushido, un insegnamento trasmessogli dal uso primo maestro, Antonio Corbacho, l’idea cioè di un’etica comune fra samurai e torero, ovvero la dignità prima di tutto e ciò che essa di conseguenza comporta. “Un modo di stare al mondo, non tanto e non solo di toreare” ha riassunto Tomàs parlando di Manolete, l’altro suo imprescindibile punto di riferimento. Nel 2007, nel sessantesimo anniversario della morte, proprio in quella plaza di Linares che a Manolete era stata fatale, anche Tomàs è rimasto incornato e la sua leggenda si nutre anche di queste cose qui, sopravvivere lì dove la mala suerte quello stesso giorno di sessant’anni prima era stata implacabile. Del Toro è anche il nome di un pittore di Malaga bravissimo tanto che la sua casa meravigliosa stata trasformata in un museo. Suo questo quadro a destra in basso. A Malaga c’è anche il museo del toro con documenti e fotografie e costumi dei piu’ grandi toreador di Spagna. Ma anche uno splendido museo del mare e uno grandissimo restaurato da italiani nel 1700 e successivamente da 10 anni da uno studio di Malaga. E’ il museo della Città, va dall’archeologia paleolitica, al mondo greco e romano fino a tutto il Novecento, pittura e scultura.
A Madrid ho faticato a trovare la targa della casa di Dominguin dove abitava con tutta la sua famiglia, la targa gialla è coperta da un albero e si trova in una via accanto alla Piazza di Sant’Anna Vicino al Teatro Calderon de la Barca. Proprio in quella piazza c’è una statua di Garcia Lorca, di cui quest’anno ricorrono i 120 anni dalla nascita, in teoria viene aperta al bella casaa di Granada e quella madrilena, una delusione; la targa gialla con il suo nome coperta da teli di un impresa edilizia che sta trasformando lo storico palazzo, sotto l’unica libreria di Madrid che ha ribadito che nessun evento è stato fatto per ricordare il grande poeta uccise dal regime franchista. “Alle cinque della tarda…” , per l’appunto…l’amore per la corrida fa parte come diceva Hemingway che equivaleva l’amore per la vita e per la morte. il combattimento e la tautomachia l’aveva bene sviluppata Picasso, nato a Malaga, di cui vi è un museo e non solo il suo da visitare assolutamente insieme alla splendida enorme cattedrale su stratificazioni a base bizantina, araba, romana, imperiale, ricca di colnne ioniche corinzie, arcate gotiche, giardini…il mio albergo …Molina Lario era li, davanti e sul roof la sera bagnandomi piedi stanchi in piscina con uno sguardo alla magnica catedrale e al palazzo Arcivescovile, non mancavo mai di alzarmi in piedi e gaurdare il porto di Malaga ricco di navi e il suo faro bianco imponente mi indicava con i suoi segnali che era ora di andare a dormire.