MESSICO E RIVOLUZIONE
“Davvero non c’è nessuna guerra negli Stati Uniti?” “Sì, è proprio così”. “Ma allora come passate il tempo?” In questo scambio di battute fra John Reed e Pancho Villa c’è tutto il Messico del primo Novecento. Biografo delle rivoluzioni, Reed si allenò a raccontare quella messicana nell’attesa dei dieci giorni bolscevichi che avrebbero sconvolto il mondo. Villa si limitò a incarnala con la stessa naturalezza con cui montava a cavallo. Un eco di quel dialogo lo si ritrova in Rivoluzione, di Arturo Pérez-Reverte (Rizzoli, traduzione di Bruno Arpaia, 463 pagine, 20 euro), dove Pancho Villa è sempre Pancho Villa, ma al posto del giornalista americano c’è un giovane ingegnere minerario, Martìn Garret Ortiz, spagnolo, ma da qualche mese assegnato a una miniera in Messico: “Lì in Spagna non avete rivoluzioni?” “No, da tanto tempo”. “Mi sembra male perdere le buone abitudini”.
Il Messico fu la prima grande macelleria del XX secolo e sul suo vendere carne rivoluzionaria e non carne da cannone il dibattito resta aperto. Fra il 1910 e il 1923 vennero rovesciati quattro presidenti, Diaz, Madero, Huerta e Carranza, assassinati i due leaders militari più popolari, Villa, appunto, e Emiliano Zapata, si arrivò al milione di morti. Risultò alla fine vincitore il generale Alvaro Obregòn che governò, si fa per dire, ancora un pugno di anni, fece fuori i tre candidati alla presidenza che in quell’arco di tempo lo avevano sfidato, sprofondò il Paese sempre più nel sangue e nel caos economico, finì morto ammazzato durante un banchetto al ristorante La Bombita: cinque pallottole gli devastarono la faccia.
Nel suo raccontare la rivoluzione messicana come una sorta di “geometria del caos”, dove “non c’era consolazione possibile, come non ce n’era, in genere, nella vita stessa”, Pérez-Reverte ha ben chiare le eccezioni che ne fanno un unicum nella storia fra Otto e Novecento. Non c’era alle sue spalle uno stato di guerra (come in Russia, in Cina, nella Francia della Comune), né un dissesto economico a essa legato (le casse vuote di Luigi XVI dopo la guerra d’indipendenza americana da cui la convocazione degli Stati Generali), ma soltanto un’effimera questione di procedure elettorali. La presa del potere politico non provocò una successiva trasformazione economica (l’esempio cubano, russo o cinese) né un reale mutamento di sistema. Rimase un conflitto interno a una borghesia già esistente, dove il capitalismo si rinsaldò modernizzandosi. Il cosiddetto zapatismo, ovvero, schematizzando, “la terra ai contadini”, fu un fenomeno minoritario e localistico e Zapata non pensò mai al Messico come un’unica entità nazionale, ma sempre alla “patria chica” del Morales, il sud dei pueblos.
In realtà, i cambiamenti maggiori riguardarono l’atteggiamento delle classi popolari: un’accresciuta coscienza civile, una certa emancipazione femminile, la mobilità geografica fatta di marce, esodi, migrazione che modificò la geografia sociale fino ad allora rimasta immutabile. Ma fu una sorta di cambiamento forzoso, allo stesso modo di come la Prima guerra mondiale portò con sé la modernizzazione e la democrazia di massa, niente a che vedere con l’ottica rivoluzionaria di un cambiamento cosciente dello status quo.
L’altra particolarità che Pérez-Reverte coglie molto bene, tratteggiata dal tradimento romanzesco di uno dei bracci destri di Villa, l’indio Sarmiento, è che l’eliminazione delle sue principali figure, così come della stragrande maggioranza degli altri attori, protagonisti o caratteristi che fossero, avvenne in modo ancora primordiale, meno raffinato, se vogliamo, ovvero meno ideologico. Le purghe e i processi staliniani, per intenderci, si inserivano in un meccanismo che si voleva razionale e che in quanto tale esaltava, falsificandole, procedure di giustizia proletaria, laddove la mattanza centro-americana era una sorta di roulette dove tutti tiravano la pallina e nessuno aspettava che il croupier chiamasse il numero uscito.
Protagonista del romanzo, dicevamo all’inizio, è un giovane ingegnere minerario, un esperto di esplosivi, insomma, a dimostrazione che l’autore di Rivoluzione sa benissimo che dal punto di vista militare quella messicana fu una guerra civile ad alta tecnologia: la dinamite, le ferrovie, le troupes cinematografiche al seguito, persino l’aviazione. E tuttavia, come nel romanzo è molto ben raccontato, l’elemento principe non fu un uso raffinato, moderno, della stessa bensì indiscriminato, quasi fanciullesco nel suo eccesso, micidiale eppure grottesco, strettamente collegato a un individualismo fatto di cariche di cavalleria fortunate o dissennate, regolamenti di conti, fucilazioni, saccheggi, stupri, duelli alla pistola, ma anche duelli a colpi di cannone.
In sostanza, la rivoluzione messicana fu, anche qui, una cavalcata spavalda e fragorosa, dove però il fascino sanguinoso da essa emanato non è in grado di farsi qualcosa di altro e più grande, un’utopia che giustifichi o compensi il macello che porta con sé. Nel 1914, quando Villa e Zapata si incontrano ai giardini galleggianti di Xochimillo, subito fuori Città del Messico, e due giorni dopo entrano nella capitale e poi nel palazzo presidenziale, nessuno dei due sa cosa vuole. O meglio, entrambi sanno cosa non vogliono: il potere supremo che la vittoria ha messo nelle loro mani. Non sanno che farsene perché non ci hanno mai pensato, l’idea stessa li spaventa. Per loro, aver vinto è aver fatto la Rivoluzione. Punto e basta. Come ha notato uno scrittore loro connazionale, Octavio Paz, “colui che rifiuta il potere sarà distrutto dal potere attraverso un fatale processo di ritorno”. L’incapacità dei leaders a costruire un progetto politico va di pari passo con il tipo di seguito da loro posseduto: l’epopea messicana è un susseguirsi di tradimenti, cambi di campo, alleanze effimere, promesse mancate.
Non so se nel suo scrivere Rivoluzione, Pérez-Reverte abbia avuto in mente un certo cinema di Sergio Leone, Giù la testa, per citare il titolo più significativo, con il suo combinato disposto di avventura e avventurieri, cinismo, ideali perduti, balbettamenti ideologici. Quello che è certo è che da romanziere di talento egli mette in primo piano un conflitto in cui gli elementi distintivi del coraggio e dell’intelligenza individuali non erano ancora stati fagocitati dalla “guerra dei materiali” che di lì a poco sarebbe scoppiata in Europa, un cameratismo delle armi premoderno e rafforzato dalla natura del terreno di scontro, un machismo all’ennesima potenza in parte riscattato dalla profondità delle passioni e da un’idea se non di invincibilità, quanto meno di disprezzo per la morte.
Al suo confronto, Dieguito e il centauro del Nord, di Pino Cacucci (Mondadori, 181 pagine, 18,50 euro), anch’esso dedicato a Villa e alla rivoluzione messicana, è un brodino ideologico-agiografico riscaldato, a cui oltretutto nuoce il tono favolistico, un abuelo, un nonno, che racconta alla sua nipotina, su cui si regge la costruzione romanzesca, tanto più sorprendente se si pensa che Cacucci è uno autore di lungo corso che ha spaziato dal romanzo storico al noir alla narrativa di viaggio. In un passaggio, Cacucci se la prende con il futuro generale Patton, allora tenente operante in Messico, accusato di non avere “rispetto per il cadavere del nemico”, che è “quello che distingue un combattente da un miserabile”. Varrà la pena ricordare che il termine “macelleria messicana” fu usato da alcuni membri del Cln italiano allorché Mussolini venne appeso per i piedi. E non riguardava l’ufficiale americano.