RUBELLI, LONGHI E IL NUOVO HOTEL GRITTI DI VENEZIA. MEZZO SECOLO DI STORIA IN UNA MOSTRA

Damaschi e broccati nei dipinti di Longhi alla Fondazione Querini Stampalia: mezzo secolo di storia nella Serenissima. Storia d’arte e di artigianato, di pittura e di costume. I celebri dipinti di Piero onghi si possono trovare alle Gallerai dell’Accademia, alla Querini in occasione della mostra di Rubelli e Longhi, ma anche nell’elegante bar del rinnovato Hotel Gritti con specchi del Settecento dove se ne trova uno di dipinto di Longhi originale e tanti della sua scuola. Il bancone in marmo intarsiato dietro al quale sono passati celebri barman come il padre dlla nota nuotatrice Pellegrini, completa lo scenario da museo tra murrine e tessuti intarsiati, candelabri e tappeti.

Chi meglio di Rubelli poteva interpretare il Settecento veneziano? Non è un caso che questa storica manifattura abbia mezzo secolo di storia e già cento anni fa aprì il suo primo negozio in piazzaSan Marco proprio a Venezia. Non è quindi un caso se ancora una volta la Rubelli torni ad ispirarsi ai costumi veneziani come quelli di Pietro Longhi, alcuni ispirati anche ai quadri del Museo Correr, Ca’ rezzonico, al Louve, alla National Gallery di Londra e in diverse collezioni private. Il libro che accompagna la mostra si intitola “Lampassi, damaschi e broccati nei dipinti di Pietro Longhi”, a cura di Doretta Davanzo Poli, edito grazie al contributo della Fondazione Querini Stampalia, Rubelli, Smit Tessile e la Cassa di Risprmio di Venezia. La prefazione è di Marino Cortese e Alessandro Favaretto, rispettivamente, il primo presidente della Querini e il secondo della Rubelli Spa.

Dopo il successo di Benozzo Gozzoli, i tessuti fatti per la cavalcata dei Magi esposti anche all’Oratorio della Passione di Sant’Ambrogio a Milano, (una mostra che ha girato 15 città e sette Paesi). E’ un peccato che il Museo del Costume di Venezia a Palazzo Mocenigo sia chiudo per restauri, un altro angolo di storia spesso dimenticato dai turisti e dai veneziani stessi. Un tempo come mecenati per gli artisti vi erano la Chiesa, nobili, alta borghesia, poi anche media borghesia, qualche colto collezionista o riccomercante o signore che usava l’arte per dimostrare il suo potere. E a parte Dogi, famiglie patrizie o regnanti, oggi non ci rimangono che le banche, i Rotary, qualche industria di buon  senso, crisi permettendo.

La mostra dei costumi ispirati alle scene di vita domestica del Longhi paranno per altre città. Andrea Dori e Francesco Zampieri della Rubelli hanno voluto esaltare l’arte e la letteratura veneziana. Non si sono certo dimenticati di Goldoni e delle sue commedie. Ma chi erano i Rubelli? Si sa che erano fiorentini e già nels ecolo dell’oro (XVI° sec) lavoravano in città 5mila telai. Ma è dal 1700 che da produttori italiani acquistano fama mondiale. La tessitura di stoffe in seta di Giacomo Pansera fu rilevata da Gian-Botta Trapolineverso il 1850, quando Anna Lazzari passò la mano, vedova dell’ultimo proprietario e con la grinta di Lorenzo Rubelli la fabbrica di San Vio si ampliò proprio el Sestiere di Dorsoduro e in calle della Bissa a Rialto si aprì un grande negozio. Dopo Lorenzo, venne la volta di Marco nato dalal contessa Pierina Allegri e fu subito destinato a seguire l’esempio dello zio materno, allora ambasciatore del governo austro-ungarico. Seguì la carriera diplomatica, ma rimasto vedovo e con tre figli tornò in Italia e si trasferì a Venezia pronto a fare viaggi in Orinte sulla via della seta; quistò anche i tessuti di passamanerai in seta di Trempolini.

Nella Chiesa di san Giovanni Battista in Brugora sono sepolti alcuni membri della famiglia Rubelli. Furono sempre loro che inventarono la tintura in rosso delle vele della Repubblica della Serenissima. Della Famiglia fecero parte anche i Dall’Oca, i Bollani, i Da Col e un certo Lorenzo Zeno che continuò a ingrandire la Rubelli, mentre altri membri della famiglia si diedero alla poesia e alla letteratura. Gabriella Rubelli con il marito Gino Favaretto passeggiavano ammirati in Riva degli Schiavoni oppure erano visti alla Fenice dove la Rubelli rivestì anche nel 2000 le poltroncine della sala e dei palchi. Zeno ricevette a Palazzo reale persino la visita della Regian Elisabetta. Alla Biennale del 1899, l’azienda venne ricordata anche con un’importante pubblicazione.

Già nel 1935 la Rubelli venne chiamata per fornire tessuti, velluti e damaschi per il Teatro della Fenice. Damaschi, broccati, sovrapizzi furono realizzati anche da Vittorio Zecchin e da Gio Ponti e Alfredo Carnelutti ricevette numerosi riconoscimenti. Morto Zeno nel 1945 avvenne una divisione della Rubelli che si ricompose nel giro di poco tempo e iniziaroni lavori per l’Escorial di Spagna, l’Albertina di Vienna, Palazzo Ducale, Palazzo Franchetti , la Stampalia (questi tre di Venezia) e il Teatro alla Scala di Milano. Nel 1980 la Rubelli entrò a pieno titolo nell’arredamento, “Arte della seta Lisio” entrò nel gruppo anche la seteria Zanchi di Como, dove ancora oggi vengono prodotti manufatti di alto pregio. Fa parte del Gruppo anche il marchio Bises e un editore tessile francese, Dominique Kieffer si innamorò di quel gusto antico ma anche contemporaneo. Nuovi traguardi furone le navi ad crociera, tessuti inifughi, arredi per grandi alberghi. Da Mosca fino a Dubai o Shanghai fino agli Stati Uniti arriva questo favoloso marchio italiano. Per me che adoro le stoffe e l’arte, figlia d’arte da parte paterna e di una madre che avava fare la sarta, quando questo era ancora un mestiere che si sposava con l’alto artigianato, sono contenta se oggi mia figlia che  studia filosofia ogni tanto fa anche corsi che le permettono di studiare e praticare l’arte del taglio e del cucito. Da Madrid mi è tornata piena di stoffe e da Londra altrettanto, chissà che non sia un buon segno?!

La sesta genrazione è fatat da Ludovico e Pietro, prima ancora di un altro Lorenzo, Nicolò e Andrea, nuovi creativi a cui si attribuiscono le fantasiose creazioni goldoniane. Alcune ispirazioni, come “Il sarto” del 1741 di Longhi, mi ricordano le copie di alcuni quadri che amava copiare mio padre per diletto come faceva con il Baldrighi, altro pittore settecentesco di Parma che guarda a caso portava il suo nome, il mio nome.


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