SAVIANO E POI ANCORA SAVIANO…CHE NOIA CHE BARBA!!!! QUANTA SUPPONENZA…MA VEDIAMO PERCHE’
Questa è una storia con un presente e un passato. Nei giorni scorsi sul Corriere della Sera Roberto Saviano ha rievocato la vicenda del sommergibile Cappellini e del suo comandante Salvatore Todaro, che nel 1940 salvarono l’equipaggio del piroscafo belga Kabalo. Lo ha fatto in maniera concisa e insieme imprecisa, come vedremo, ponendo però l’accento oltre che sull’impresa in sé sulla sua riproposta, in forma di libro e poi di film, a opera dello scrittore Sandro Veronesi e del regista Edoardo De Angelis: Comandante (Bompiani ed.) è il titolo del primo, a doppia firma, e si presume del secondo.
Nella ricostruzione di Saviano, tutto parte da un movimento, chiamato Corpi, con tanto di chat di gruppo, a cui Veronesi diede vita nel 2018 quando le operazioni di soccorso ai migranti in mare erano oggetto di critiche, anche becere, spesso pretestuose. Nella chat, pare di capire, appare dapprima un link legato all’articolo di un ammiraglio in cui veniva ricordata proprio l’impresa del comandante Todaro “in missione per la Regia Marina, quindi per un Mussolini ansioso di fare bella figura con i tedeschi e con l’ammiraglio Karl D”onitz”, chiosa Saviano, un modo contorto per non dire una cosa molto semplice: Todaro era un ufficiale italiano in guerra e come tale pronto a fare la sua parte, ovvero il suo dovere.
Al link si aggiunge poi una mail in cui una “promoter musicale”, qualsiasi cosa voglia dire questo termine, fa sapere che il comandante Todaro era suo nonno, una cosa singolare, commenta Saviano, visto che la chat “coinvolge in tutto ventotto persone”, il che lascia perplessi sul potere evocativo-associativo del movimento Corpi prima ricordato…Al di là di ciò, “stregati dalla storia, incuriositi dal caso, De Angelis e Veronesi si mettono a fare ricerche sul comandante, aprendo bauli -letteralmente- con le sue vecchie cose, parlando con i parenti” eccetera…Da qui un romanzo e poi una sceneggiatura dove, a detta sempre di Saviano, che di professione fa anche lui lo scrittore, “la potenza della vera prosa” sta in una “lama che va affilata bene, perché tagli a dovere, ma non troppo, perché altrimenti si sfalda”. Che le lame si sfaldino ci sorprende, ma ce ne faremo una ragione, che, nel caso del regista De Angelis, questi scriva “come vede”, sarà pure “un grande dono”, a patto tuttavia che veda bene e non sia né miope né strabico…
Fin qui la storia della chat e dintorni. Veniamo al racconto su come andò quel salvataggio in mare e su chi era Todaro. Scrive Saviano che “il piroscafo belga Kabalo poco prima aveva tentato di uccidere Todaro e i membri del suo equipaggio”. La cosa non è vera, il Kabalo non sparò: aveva sì un cannone, ma non poté utilizzarlo perché l’accorciata distanza provocata dall’emersione del sommergibile non gli consentiva l’angolo di inclinazione giusta per colpirlo. “Todaro salvò l’equipaggio del Kabalo lasciando salire a bordo gli stessi belgi che fino a pochi minuti prima sparavano cannonate e che adeso, poveri disgraziati, si apprestavano a morire con i polmoni gonfi di acqua salata”.
In realtà, il mercantile venne colpito e affondato dopo che le due scialuppe di salvataggio erano state messe in acqua e si erano allontanate: quelli che sul momento prese a bordo il Cappellini erano solo i cinque marinai rimasti indietro rispetto al “si salvi chi può” e buttatisi in acqua dopo che l’unico canotto di bordo era a propria volta caduto in mare. C’è qualcos’altro tralasciato nella sua ricostruzione da Saviano, e che però è molto importante. Todaro recuperò successivamente le due lance, le prese al traino, per due volte il traino si ruppe, imbarcò alla fine tutti e ventisei i membri dell’equipaggio belga e dopo quattro giorni di navigazione li sbarcò su una spiaggia delle Azzorre…
Nella rievocazione di Saviano Todaro era invalido per una “banale esercitazione”, che lo aveva lasciato “con la schiena rotta”. E’ vero, ma un po’ riduttivo. La schiena Todaro se l’era rotta nel 1933, mentre era osservatore sugli idrovolanti: il suo si era infilato in mare colpito nei piani di coda dalle colonne d’acqua sollevate da un siluro…Quanto alla sua morte, avvenuta nel dicembre del 1942 e da Saviano non ricordata, sarà nel canale di Sicilia, a opera di un areo americano, mentre sul peschereccio Cefalo trasportava verso un porto algerino due barchini esplosivi da usare contro la flotta anglo-americana.
Sandro Veronesi è del 1959, e quindi appartiene alla mia generazione, gli anni Cinquanta, appunto. Saviano, come De Angelis, sono della fine degli anni Settanta, una generazione dopo, insomma. Ciò che li accomuna è l’essere intellettuali, essere italiani, interrogarsi e appassionarsi, immagino, su ciò che è stato il nostro passato proprio per poter capire meglio il nostro presente e lavorare in qualche modo per un futuro migliore. Dalla ricostruzione giornalistica di Saviano su come sia nato Il Comandante vien fuori che nessuno di loro, almeno sino al 2018, sapesse chi fosse Todaro, il suo coraggio, le sue imprese, e sempre restando al resoconto di Saviano l‘impressione è che almeno quest’ultimo non abbia poi approfondito più di tanto.
Bene, questa è la storia presente. Il passato ci porta invece alla fine degli anni Sessanta, il 1968, per la precisione. Un ragazzo di diciassette anni accompagna il padre a una cena in casa di amici. In questa cena è presente uno scrittore, Antonino Trizzino, di cui il ragazzo è un lettore, e quindi il padre lo porta con sé perché sa che gli farà piacere. In quegli anni Trizzino ha scritto vari libri, Navi e poltrone, Settembre nero, Sopra di noi l’Oceano, tutti pubblicati da Longanesi, tutti di grande successo, nonché fonti di grandi polemiche.
L’ultimo è il racconto dell’attività sommergibilistica, specie in Atlantico, della nostra marina e l’impresa di Todaro è raccontata nei minimi dettagli, così come quella del sommergibile Malaspina e del suo comandante, il capitano Leoni, che nell’agosto sempre del 940 fece la stessa cosa con i superstiti della British Fane, una petroliera inglese. Come scriveva allora Trizzino, per capire le ragioni di questa umanità e di questo altruismo “bisogna risalire a quegli anni: il comandante Leoni appartiene a una generazione di giovani in gran parte animata dall’ambizione di fare onore al proprio Paese, di accrescerne la fama e il rispetto del mondo. Sentono il dovere di mostrarsi nobili e generosi, non coraggiosi soltanto”.
Nella dedica di Trizzino a quel ragazzo diciassettenne, dopo il nome e il cognome c’è scritto. “Da italiano a italiano”. Non c’erano chat, né gruppi d’ascolto: si leggeva, si andava in biblioteca e in libreria, si era curiosi, ci si appassionava, si imparava da quelli più grandi di te, si voleva capire, si cercava di mantenere un filo rosso, una continuità generazionale. Tutto qui. Che a distanza di cinquanta e passa anni non si abbia la conoscenza della propria storia, da italiani a italiani, appunto, la dice lunga sul tipo di Paese che abbiamo costruito.