THE LAST FACE L’ULTIMA FATICA DI SEAN PENN, MA CHE DELUSIONE!
Luciana Baldrighi
da Cannes
L’Africa da anni è al Centro della scena geopolitica internazionale. Non a caso dalla Trinnale di Milano al Museo delle Culture sempre del capoluogo lombardo e in tante capitali, il tema è caldo e la situazione è drammatica ma decisiva per le mille concause di questa grande Terra. Istruzioni per l’uso. Quando si fa un film sull’emergenza umanitaria in Africa (massacri tribali, campi profughi, malattie, epidemie, carestie, orfani e bambini soldato, madri e figlie violentate, Ogn, Onu, ospedali da campo e medici senza frontiere…) siate realisti, evitate l’impossibile. Per esempio, in una tendopoli dove di notte le donne hanno paura di andare alle latrine perché non c’è luce e potrebbero essere assalite, non fate circolare Charlize Theron in t-shirt…Per esempio, dovendo raccontare la drammatica quotidianità sanitaria, non trasformate Xavier Bardem in un chirurgo demiurgo che nella foresta fa un cesareo su una donna già abbondantemente massacrata e salva lei e il nascituro, ogni due per tre risolve un caso clinico, non prende nulla sul serio, ma piange spesso… Infine, nel cercare di dare conto del problema, immenso, della deriva post-colonialista del continente nero, usate con cautela le semplificazioni sulle colpe dell’Occidente, le tirate retoriche e generiche sul capitalismo insensibile, i pistolotti umanitari del genere “i profughi sono nostri fratelli, sono come noi”, soprattutto se a metterli in bocca ai suoi attori è un regista di cui è nota, come dire, una certa rissosità antiumanitaria nelle relazioni sentimentali, anche se non hanno a che fare con mogli profughe, ma con signore del jet set…
In caso contrario, il minimo che vi possa capitare è questo The Last Face, ieri in concorso, dove Sean Penn, appunto il regista in questione, sciorina tutto il peggior campionario retorico della pornografia sentimentale applicata alle guerre, con gli eroi duri e puri che prima di fare l’amore si lavano i denti, lei figlia d’arte (suo padre era una specie di dottor Schweitzer), lui figlio della democrazia spagnola (orfano di genitori vittime del franchismo); un dottore europeo loro amico che si chiama dottor Love; un dottore indigeno loro amico che nelle missioni umanitarie fuori dal campo gira si porta dietro i figli piccoli come se fossero tutti in gita; una cugina della figlia d’arte che va a letto col figlio della democrazia nell’interregno fra il loro lavaggio dei denti e la successiva crisi di identità della coppia: perché siamo qui?’ Dobbiamo limitarci a curare o dobbiamo fare una campagna stampa per risolvere il problema dell’Africa? Qual è, insomma, il nostro compito? Ah, saperlo.
The Last Face non è il solo film sul tema presente a Cannes, ma il fatto che sia l’unico in concorso la dice lunga sulla schizofrenia di un Festival che antepone un cast internazionale ( i già citati Bardem e Theron, gli inutili camei di Jean Reno, Jared Harris, Adèle Exarchopoulos) e un regista di richiamo, talentuoso ma qui solo presuntuoso, a delle riflessioni meno glamour, ma più intense e motivate e, quel che più interessante, cinematograficamente esemplari proprio perché non bombastiche, non viziate dal narcisismo di chi scambia un viaggio nel Darfur per una conoscenza della realtà africana.
Gli altri due film sul tema scelgono infatti intelligentemente la strada del documentario e mettono in primo piano non l’occhio di chi gira o la dimensione attoriale di chi recita, ma le vittime-testimoni di ciò che viene raccontato. Dice Jonathan Littell, autore di Wrong Elements, la storia della Lord Resistance Army dell’Uganda specializzata nel rapimento di bambini dalla scuole per trasformarli in soldati o in “spose” dei guerrieri: “Mi interessava il significato delle parole ‘carnefice’, ‘assassino’, ‘crimine’. Che cosa diviene il concetto di colpa, di responsabilità, quando riguarda chi, rapito da piccolo, diventa, all’interno del solo sistema di riferimento che gli viene concesso, un uccisore volontario’ E’ la stessa domanda che si porrà per i ragazzini educati dal Daesh islamico, così come a suo tempo riguardò la gioventù nazista, stalinista, maoista, khmer. Come si vede, non è solo un problema africano”. Littell fa parlare proprio loro, i sopravvissuti: dal 1989 al 2013 si parla di circa 60mila rapiti, di cui meno della metà tornati vivi dalle foreste dove combattevano e si nascondevano, vittime e insieme carnefici, testimoni e attori di atti che andavano oltre loro stessi, i wrong elements, i cattivi elementi di cui la società ugandese attuale non sa bene cosa fare. “Ne ho filmato i gesti –dice Littell- le intonazioni, le esitazioni, gli sguardi, la verità dei corpi e delle loro parole. La scelta del formato 4/3 mi ha permesso di fare del paesaggio una cornice che ricrea quel sentimento di chiusura che è proprio di una visuale delimitata da un muro di alberi o di alta vegetazione e che spinge a focalizzarsi sui visi e sui sentimenti da cui quei visi sono attraversati. Ho scelto di riprendere la verità del soggetto e non quella del cineasta, perché quest’ultima è forzatamente esterna. Ogni fiction occidentale sull’Africa rischia sempre di dare l’idea di una parete di vetro, un qualcosa che ha a che fare con uno zoo”.
Anche Hissein Habré, une tragedie tchadienne, di Mahamat Saleh Haroun, si muove nella stessa ottica. Documenta la battaglia giudiziaria che le vittime del dittatore del Ciad conducono per 15 anni e che porta nel 2013 al suo arresto e al successivo processo per crimini contro l’umanità: il verdetto è atteso per la fine di questo mese. Durante il suo regime, Habré fece morire nelle galere allestite dalla sua polizia politica circa 40mila persone. Haroun filma il racconto dei sopravvissuti, gli fa raccontare paure e speranze, sentimenti di vendetta e di pietà: L’orrore e l’umanità.